Massimo quest’estate è a Roma, ci vediamo la mattina nella sua casa di Torrevecchia. Qui a Roma, come a Parigi, cerca convegni, incontri sulla Russia o dibattiti politici dove si possa ragionare di quel Paese: all’inizio di luglio è andato in taxi a un convegno del risorto Pci che nel suo statuto si richiama a valori gramsciani, togliattiani, marxisti- leninisti e nella sezione esteri del sito presenta foto di Putin che stringe la mano a vari premier. A nulla vale che io gli dica che questo Pci è una formazione del tutto secondaria: non ne è convinto, quelle foto di Putin poi sono per lui una conferma del legame del nuovo Pci ha con il potere russo. Lì ha incontrato ragazzi, nuovi comunisti e ha provato a raccontargli cos’era davvero l’Urss, quanta mistificazione, quanta violenza, quanto nazionalismo si nascondesse - e neanche con troppa cura dietro lo stato comunista. Me lo immagino dinoccolato e grande nel corpo chinarsi verso i ragazzi che istintivamente lo ascoltano.

Ci sediamo in cucina, lui appoggia alla parete il bastone che lo accompagna e gli viene in mente un ricordo: «A Vienna mi racconta - avevo conosciuto il direttore del “Moskovskii Komsomolets”, poi quando l’ho rincontrato a Mosca mi ha chiesto di scrivere per il suo giornale. Mi ha affidato a un suo collaboratore che mi aiutasse con il russo e controllasse quello che scrivevo. Il direttore voleva che io parlassi di Mosca come della Terza Roma, che paragonassi i sette grattacieli staliniani ai sette colli», insomma voleva che Massimo si occupasse della grandeur millenaria della Russia prima ortodossa poi comunista. «Scrissi invece sulla Repubblica romana di Garibaldi». Era l’inizio degli anni Sessanta, la guerra del Vietnam era in corso, l’opinione pubblica mondiale manifestava contro la guerra. «Il collaboratore del “Moskovskii Komsomolets” che control- lava i miei pezzi, di giorno scriveva contro l’imperialismo americano, di notte beveva e sosteneva che bene facevano gli americani a contrastare il comunismo anche con le bombe». All’università Massimo viene incaricato di fare esercizi di conversazione con alcuni giovani cinesi che studiano l’italiano. «Questi cinesi studiavano la letteratura italiana senza poter mai leggere gli originali. Io gli dicevo: come fate a capire Manzoni o Moravia senza averli mai letti? Avevano dei libretti in cui imparavano l’italiano analizzando gli errori di Togliatti secondo la linea ufficiale di Pechino. Poiché i loro opuscoli trattavano più di politica che di letteratura, ho domandato ai miei amici maoisti come mai la Cina e l’Urss, due paesi che si erano liberati dal capitalismo, fossero sul punto di farsi la guerra. La dottrina non lo prevedeva. Non sapevano cosa rispondere, come tanti altri marxisti e leninisti. C’era un ragazzo, uno studente curioso che si chiamava Li e veniva da me, mi chiedeva, voleva leggere, voleva sapere. Anni dopo ho incontrato alcuni di loro a Roma e ho chiesto di Li: era stato mandato a rieducarsi durante la Rivoluzione culturale. I cinesi non erano i soli che non potevano leggere i libri. A Mosca nelle biblioteche c’erano volumi riservati alle persone che stavano ai livelli alti della scala gerarchica e sapevano, come dire, distinguere il bene dal male. Per loro venivano tradotti libri inaccessibili agli altri. Tra i miei amici c’era chi mi chiedeva di procurargli libri che in Russia erano proibiti, per esempio Pensieri inopportuni di Gorkij o La peste di Camus. Secondo certi compagni italiani dare ai russi che li desideravano “libri illegali” era un atto di sabotaggio antisovietico, ma tra di noi c’era anche chi pensava che un libro ha diritto di essere letto e trovava il modo di farlo avere a chi lo voleva. Si sentivano continuamente notizie di punizioni e di condanne per i detentori dei libri, queste armi pericolose. Nel ’ 63 un mio amico, Vladimir Bukovskij, venne rinchiuso in un ospedale psichiatrico per aver copiato un volume di Milovan Gilas che era stato ministro del governo comunista di Belgrado». Vladimir Bukovskij è uno scrittore e attivista russo, dissidente già dall’inizio degli anni Sessanta, di recente fondatore di Memento Gulag, una giornata annuale in memoria delle vittime dei gulag. «Quando venne a Mosca il responsabile della cultura del Pci Mario Alicata gli chiesi che ne pensava della repressione del diritto alla conoscenza in Urss, mi rispose in modo duro che un piccolo provinciale come me non aveva nessun diritto di giudicare la grande Unione Sovietica».

A pranzo Massimo e io abbiamo preso l’abitudine di andare a un ristorante cinogiapponese, il riso cantonese ci conforta e anche l’aria condizionata in questi caldissimi giorni estivi romani.

«Alla mensa degli studenti avevo fatto amicizia con un gruppo di geografi. Molti erano d’origine ebraica. Il passaporto interno li identificava come ebrei. Al punto 5 del questionario, alla domanda sulla nazionalità, dovevano scrivere: ebraica. Nel 1931 Stalin aveva fatto nascere la repubblica autonoma del Birobidzhan, la lingua ufficiale era l’yiddish. Anche se chiaramente non tutti gli ebrei dell’Urss abitavano là. Questi amici geografi erano più aperti del- la media dei russi, più disponibili verso gli stranieri, parlavano già due lingue, yiddish e russo. Erano molto curiosi dell’occidente, ma non potevano uscire dall’Urss. Io che ero straniero non potevo uscire liberamente da Mosca, dovevo chiedere permessi, viaggiare in modo organizzato. In gruppo - con loro che mi coprivano - andavamo in giro per l’Asia centrale. Erano spedizioni organizzate dall’Università. Nelle visite ufficiali si vedevano i monumenti, si incontravano i membri del partito locale, con loro invece si andava a vedere come viveva la gente: in Uzbekistan, ad esempio, ci inoltravamo per i borghi dove non c’era alcun servizio, dove la miseria era evidente; malgrado la dottrina ufficiale la maggior parte degli abitanti erano rimasti musulmani e avevamo mantenuto i costumi legati alla tradizione musulmana: case con mura esterne senza finestre, le finestre che davano all’interno, sul cortile. Il russo lo conoscevano tutti. L’alfabetizzazione era arrivata dappertutto: serviva anche a diffondere la dottrina che doveva rimpiazzare le dottrine locali, cosa che però aveva funzionato solo superficialmente. Una fonte di tensione poi erano i popoli deportati da Stalin. Dopo la riabilitazione di Chrušcëv: erano tornati nelle regioni da dove venivano e avevano trovato le steli di pietra dei cimiteri divelte e usate per costruire massicciate, demolite le torri che erano simboli importanti della loro storia. I viaggi con questi amici mi hanno fatto conoscere una “realtà sovietica” ben diversa dalle riviste diffuse dal Pci e Italia- Urss. Probabilmente gran parte del territorio sovietico era chiuso agli stranieri più per ragioni di immagine che per nascondere chissà che segreti militari.

Ad esclusione di quelle delle città aperte, nel paese degli Sputnik, le infrastrutture erano pari a quelle del Terzo mondo. Nelle conversazioni con gli amici geografi venivano fuori i disastri ambientali causati da decisioni prese da dirigenti megalomani, a cominciare da Stalin. Dirigenti che concepivano opere impossibili come la ferrovia parallela alla Transiberiana, pensata in previsione di chissà quali guerre asiatiche, costata centocinquantamila vite di lavoratori forzati e mai entrata in funzione poiché costituita sul permafrost ( permagelo, in italiano, terreno perennemente ghiacciato in profondità) grazie al parere favorevole di geologi che non osavano opporsi alla “suprema volontà”. Si parlava della distruzione dell’ecosistema che avrebbe portato all’estinzione del Mar d’Aral, perché anche dopo Stalin mancava il coraggio civile di contestare i piani decisi dal Politburo nello spirito del “centralismo democratico”».

Nel 1964 finisce l’era di Chrušcëv, Brežnev è al vertice dell’Urss, la fine del disgelo si avverte subito, l’aria si fa più rigida. Nel settembre del 1965 gli scrittori Andrej Sinjavskij e Julij Markovic Daniel vengono arrestati con l’accusa di propaganda antisovietica: Sinjavskij aveva pubblicato in Francia con lo pseudonimo Abram Terc il saggio Che cos’è il realismo socialista?

Daniel aveva pubblicato negli Stati Uniti con lo pseudonimo Nikolaj Arzac Qui parla Mosca. Giunsero appelli in loro sostegno dalla Russia e dall’estero, ma non bastò: Andrej Sinjavskij e Julij Markovic Daniel furono condannati a sette anni di gulag nei pressi del Volga. «Nei mesi successivi al loro arresto, io ero a Mosca, all’università. Erano già passati tre mesi da che erano stati portati via e non si parlava ancora di un processo. Un gruppo del quale fa parte anche il figlio di Esenin organizza una manifestazione a piazza Puškin il 5 dicembre, il giorno della Costituzione: i manifestanti srotolano dei cartelli con su scritto “Viva la Costituzione. Processate Sinjavskij e Daniel”. Non appena li espongono, giungono sul posto auto civetta e poliziotti in borghese li caricano sulle auto. In facoltà da noi, a filologia, qualcuno aveva messo sui banchi dei volantini con su scritto: oggi ci sarà la manifestazione a piazza Puškin. Erano venuti da me e mi avevano raccomandato di coinvolgere il numero più alto possibile di stranieri, di farli venire alla manifestazione. Lo dico ai compagni italiani e loro rispondono: è una provocazione. E non ci vengono. La sera alla casa dello studente ci sarà una specie di rastrellamento, gli studenti che collaboravano con i servizi a quel punto si rivelano ( omosessuali ricattati, ragazze che arrotondavano, gente ricattata per altri motivi), vengono convocati e indicano quelli che hanno diffuso i volantini e che vengono minacciati di espulsione. Accedere all’università era durissimo, se venivi espulso era un problema serio per il tuo futuro. Così una ragazza rompe il vetro della finestra, fa il gesto di buttarsi di sotto. Per il momento l’espulsione in massa viene sospesa. Poi nel corso dell’anno tranquillamente gli studenti incriminati saranno espulsi un po’ per volta».

fine settima puntata/ continua