Poteva perdersi in gioventù Carlo Calenda, bastava un soffio. Perché, come scriveva William M. Thackeray ne Le memorie di Barry Lyndon «siamo tutti dei fantocci nelle mani del destino». Sarebbe stato uno dei tanti figli d’arte, schiacciati dal peso del blasone, dal carisma di una famiglia allargata piena di talenti, ma forse distratta, forse anaffettiva, forse propizia agli smarrimenti.

La mamma Cristina giovane regista figlia di Luigi Comencini uno dei padri nobili della commedia all’italiana, la nonna Giulia Grifeo di Partanna una principessa siciliana dalle fascinose origini, il padre Fabio economista e romanziere, il patrigno Riccardo Tozzi genietto delle fiction Mediaset e oggi produttore di serie e film di successo come Romanzo CriminaleSuburra. Poteva perdersi e invece ha bruciato tutte le tappe. Manager della Ferrari a 25 anni, responsabile marketing di Sky Italia prima dei 30, uomo ombra di Luca Cordero di Montezemolo a Confindutria e coordinatore politico dell’associazione Italia futura, poi viceministro del governo Letta e infine ministro dei governi Renzi e Gentiloni. Per molti è l’astro nascente della politica italiana, lui giura che lascerà la politica e tornerà nel mondo dell’impresa, ma la sfrontatezza con cui gestisce i suoi dossier autorizzano a pensare il contrario.

La prima ribalta è stata precocissima: ha appena dieci anni quando diventa attore e interpreta Enrico Bottini in Cuore , l’adattamento televisivo del romanzo di De Amicis realizzato dall’illustre nonno Luigi. Nel paradossale gioco di specchi che riserva ogni biografia, l’edificante Bottini, il quieto io- narrante dell’autore, sembra una nemesi retroattiva per il focoso Calenda, quanto di più lontano da quel temperato buonsenso. Calenda ama la rissa, il corpo a corpo, non si nasconde con l’interlocutore, dote che oggi gli riconoscono tutti gli avversari, ma è anche cocciuto come un mulo, tratto caratteriale che si porta dietro fin da quando era un ragazzino irrequieto.

L’adolescenza la trascorre nelle aule del liceo Mamiani di Roma ( sezione c) - insegnante di greco e latino Ennio Canettieri un intellettuale funambolo di giambi e distici elegiaci, autoconfinato alle scuole superiori per supremo snobismo- scuola “rossa”, o di «borghesi tinti di rosso», come ironizzava Giuseppe Addona, altro professore- filosofo di quelle stagioni. In una scuola così si fa politica un po’ per moda e per essere accettati dal gruppo, tutto in uno spirito spensierato e lontano dalle cupezze degli anni 70.

All’epoca Carlo non ha ancora sviluppato la passione per le banche, le assicurazioni e i trattati di libero scambio, ma non è un barricadero. Le manifestazioni contro l’apartheid sudafricano, le pallosissime proiezioni sulla Resistenza, le occupazioni per «una scuola migliore», le commemorazioni del ‘ 68 lo interessano il giusto.

Non è un alternativo, un fricchettone, un radical chic; gira per il quartiere Prati con un motorino peugeot Metropolis prototipo dei moderni scooter ai tempi riservato ai ragazzi della Roma bene, i cosiddetti pariolini, si veste da paninaro però i suoi amici sono quasi tutti di sinistra. Partecipa alle attività politiche per socializzare, per intrecciare il tempo, come è normale che accada nel gaio riflusso politico della seconda metà degli anni 80.

Si iscrive 15enne alla Fgci, la federazione giovanile del partito comunista, ma per capire il contesto bisogna inquadrare la Fgci romana di quel periodo: post- ideologica ante- litteram, più Wim Wenders e Bono Vox che Vladimir Lenin e Rosa Luxemburg, resiste il mito corale di Enrico Berlinguer, ogni tanto in piazza sventola qualche sbiadita bandiera del Che, ma nulla di più. Il segretario nazionale è prima Pietro Folena e poi Gianni Cuperlo, a Roma la macchina organizzativa la gestisce Nicola Zingaretti: 36 mesi dopo il Pci non esisterà più.

La militanza è un residuo esotico del decennio precedente, rossi e neri non si ammazzano più per le strade, i giovani abbandonano le piazze, si riversano nei fast food, nelle discoteche nei villaggi vacanza, all'interno delle case risuonano i jingle delle tv commerciali e i tormentoni dei comici disimpegnati.

I  compagni del liceo lo ricordano come un tipo socievole, intelligente e un po’ sbruffone. Malgrado la brillante carriera di manager alla corte di Luca Cordero di Montezemolo, tra i banchi di scuola Calenda non era certo un secchione, tanto che in primo liceo viene bocciato: troppe assenze, troppe distrazioni, troppa voglia di annusare gli altri, di scoprire il mondo, poco controllo familiare alle spalle.

E dire che i suoi collaboratori oggi ne elogiano lo stakhanovismo e la scarsa propensione alla mondanità, la dedizione calvinista.

In questo strano gioco di rovesci il riscatto avviene come un remake cinematografico. Se madre Cristina lo ha messo al mondo quando aveva 17 anni, anche Carlo diventa, alla stessa età un ragazzo- padre, o meglio un padre- ragazzo.

La responsabilità è un macigno che può schiacciarti, oppure farti reagire e insegnarti l’arte della concretezza proprio come è accaduto al giovane Calenda, costretto a crescere più in fretta della sua età.