Non tutte le nomine dei capi degli uffici giudiziari avvengono all’unanimità. Spesso, infatti, il Plenum procede a maggioranza come, per altro, previsto dal regolamento del Consiglio superiore della magistratura. Non è infrequente che per i ruoli più importanti la discussione, soprattutto in Commissione incarichi direttivi, si trascini per diverse settimane prima di giungere alla votazione finale. A tal riguardo è sufficiente ricordare, lo scorso anno, le nomine degli attuali procuratori di Milano e Palermo avvenute al termi-ne di accese discussioni.

Una volta votato il candidato, però, sarebbe auspicabile che il verdetto fosse accettato da tutti i componenti dell’Organo di autogoverno.

Questo perché, al netto delle dinamiche correntizie che possono aver comunque influito sulla scelta, il cittadino utente del sistema giustizia deve essere pienamente consapevole che il capo dell’ufficio sia un magistrato preparato, equilibrato, in grado di far ben funzionare una macchina complessa come, appunto, quella giudiziaria.

Gli avvocati, i cancellieri, il personale amministrativo, non possono poi non avere la certezza che il Csm abbia scelto il migliore fra coloro che aspiravano a quel determinato incarico. Contestare il sistema significa delegittimare in radice il processo decisionale. Delegittimazione che ha un peso maggiore se è posta in essere dalla corrente di riferimento del magistrato sconfitto.

Si ingenera il sospetto che il procedimento di scelta del Csm sia opaco, legato a logiche oscure e per nulla trasparenti.

Un approccio del genere, ovvio, contribuisce ad erodere quel poco di fiducia che ancora viene riposta nella magistratura.

Ed è proprio quello che sta accadendo in queste ore dopo la nomina di Giovanni Melillo a procuratore di Napoli.

La corrente dello sconfitto procuratore di Reggio Calabria Federico Cafiero De Raho, Unicost, ha diramato un comunicato in cui, oltre a rivendicare la scelta fatta, tramite una dettagliata analisi comparativa dei curricula dei due candidati, attacca direttamente l’Organo di autogoverno.

In particolare si legge che, per Unicost, la nomina di De Raho rispecchiava «pienamente l’idea di un Csm in grado di difendere l’ordine giudiziario da ogni possibile influenza esterna, in coerenza con il principio di sua terzietà costituzionale». Ciò non è accaduto e «con rammarico si constata che altri gruppi fanno seguire a proclami e dichiarazioni fatti concreti diversi, se non opposti, che, in ultima analisi e al di là del merito del collega Melillo, obiettivamente possono apparire contraddittori con la sempre predicata, ma spesso non praticata, lotta alle cosiddette carriere parallele».

Su Melillo, dunque, il fatto di aver prestato servizio fuori ruolo come capo di gabinetto del Ministero della Giustizia sarebbe una “macchia” insanabile che minerebbe la sua terzietà ed indipendenza.

Accusa grave per un magistrato dato che terzietà ed indipendenza dovrebbero essere un prerequisito.

In soccorso di Melillo era intervenuto al momento della votazione il primo presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio: «No a fatwe e pregiudizi su magistrati eccellenti, su uomini che contribuiscono al buon funzionamento delle istituzioni». «Le accuse di carriere parallele - aveva aggiunto Canzio - come tutte le fatwe e i pregiudizi ideologici sono affetti sempre da una qualche ottusità. Come in passato è avvenuto per Falcone e Loris D’Ambrosio, mi è sembrato di avvertire la stessa retorica. Falcone e D’Ambrosio hanno dimostrato che pur lavorando nei palazzi erano magistrati con la schiena dritta. E questi magistrati non meritano di essere delegittimati, ma ne va rispettata la dignità personale e la storia professionale». «Allora evitiamo questa deriva culturale e chiediamoci, invece, di che cosa ha bisogno la più grande procura d’Italia investita da inchieste e problemi di straordinaria portata. Magistrati come Melillo vanno incoraggiati e non chiamati a dirigere un tale ufficio accompagnati da una strisciante e ingiusta delegittimazione. Essi hanno di fronte sfide davvero difficili per le quali hanno sempre dimostrato una forte vocazione», aveva concluso Canzio.

Parole che, evidentemente, all’indomani della nomina di Melillo non sono state comprese e che rendono, a questo punto, non più rinviabile una seria disciplina del rapporto magistrati/ politica.