«Se volete la verità sull’omicidio di Pier Paolo Pasolini dovete trovare Johnny lo zingaro e chiederla a lui». Non ci sono vie alternative: chiunque ipotizzi l’esistenza di una storia segreta, custodita chissà dove, è solo alla ricerca «di pubblicità». A dirlo è Nino Marazzita, legale della famiglia Pasolini nei processi che hanno portato alla condanna definitiva di Pino Pelosi, morto giovedì a 58 anni, dopo una lunga malattia, unico a pagare per la morte dello scrittore, ammazzato nella notte tra l’ 1 e il 2 novembre del 1975 all’Idroscalo di Ostia. Non che si sappia tutto su quel delitto: mancano gli altri esecutori e senza quelli, dice Marazzita, non si conosceranno neanche i mandanti. Ma l’altro possibile custode di quel segreto è scappato a giugno scorso. Giuseppe “Johnny” Mastini, condannato all’ergastolo per omicidi e rapine, «aveva un legame con Pelosi che nessuno ha mai voluto approfondire». Perché, dice l’avvocato, «la procura non voleva la verità».

LA CASSETTA DI SICUREZZA

Marazzita parte da qui, dalla cassetta di sicurezza di cui parla Alessandro Olivieri, difensore di Pelosi. «Sono totalmente convinto dell’innocenza di Pelosi - aveva dichiarato -. Una parte delle informazioni non sono state date e sono gelosamente custodite in una cassetta di sicurezza, perché sono troppo forti. Lui non se l’è mai sentita di diffonderle per paura che qualcuno potesse toccare lui o i suoi familiari. La verità non è morta con Pelosi. Ma è talmente pesante e difficile da poter raccontare con semplicità». Parole che Marazzita etichetta come «balle» : Pelosi è morto e solo Mastini può raccontare qualcosa. Ma gli indizi che portavano a lui non sono mai stati considerati. E lo stesso Pelosi manifestava l’ansia febbrile di nascondere ogni collegamento.

IL RUOLO DI JOHNNY LO ZINGARO

«Due elementi portano a Johnny. Quando Pelosi viene arrestato non si dà pace per aver perso l’anello con la croce militare regalatogli da Mastini, perché capisce che può collegarlo a lui. È vero che aveva 17 anni - spiega - ma aveva un’astuzia incredibile. Era capace di vanificare immediatamente una domanda capziosa e il collegamento ossessivo che aveva fatto con quell’anello poi ritrovato sul luogo dell’omicidio la diceva lunga. Mastini era claudicante, per una ferita ad una gamba dopo aver ucciso un poliziotto. Nella macchina di Pier Paolo fu trovato un plantare, che poteva appartenere ad una sola persona, ma la mia richiesta di fare un esperimento giudiziale per vedere se fosse suo non fu mai accolta». Non c’è però «alcun dubbio» che sia stato Pelosi ad uccidere Pasolini. L’allora 17enne fu fermato la notte stessa a Ostia, alla guida dell’auto del poeta, un’Alfa Gt 2000 grigia metallizzata. Accusato di furto, confessò di avere rubato l’auto, raccontando, durante l’interrogatorio, di essere stato abbordato da Pasolini e di averlo investito involontariamente dopo una colluttazione a colpi di bastone per aver prima accettato e poi rifiutato una prestazione sessuale. E, inizialmente, disse di aver fatto tutto da solo.

LE INDAGINI E I PROCESSI

Il primo processo davanti al tribunale dei minori, presieduto dal fratello di Aldo Moro, Carlo Alfredo Moro, lo vide condannato per omicidio in concorso con ignoti. «Quella sentenza fu un capolavoro giudiziario - spiega Marazzita - Dice che non fece tutto da solo e non è vero che la sentenza d’Appello negasse la presenza di complici. I giudici di secondo grado non se la sentirono di dire con certezza che ci fosse qualcun altro, ma non lo esclusero. E anche Pelosi ammise che c’erano dei complici durante l’intervista con la Leosini, seppur ampiamente pagato». Secondo il legale, la procura generale, nel condurre le indagini, «dimostrò chiaramente l’intento di non approfondire ma di voler bloccare l’inchiesta. Quando il giudice Moro, che aveva capito che non funzionava niente in quelle piccole indagini fatte in 45 giorni, disse che era certa la presenza di altri, la procura generale impugnò subito la sentenza, senza nemmeno attendere le motivazioni - ha aggiunto -. Questo è stato il segnale che non volevano indagare, perché se si fosse risalito agli esecutori materiali allora si sarebbe potuto arrivare ai mandanti, che potrebbero essere anche uomini delle istituzioni. Negli anni ho chiesto la riapertura del caso cinque volte, perché le indagini vere non sono mai state fatte».

GLI ALTRI SOSPETTI

Tra i nomi poi attribuiti ai complici di Pelosi furono fatti anche quelli dei fratelli Franco e Giuseppe Borsellino, alias ' Braciola' e ' Bracioletta', trafficanti di droga e militanti nell’Msi. Un poliziotto infiltrato li aveva anche sentiti vantarsi di quel delitto ma uscirono dalle indagini dopo aver dichiarato ai magistrati di essersi inventati tutto per fare i duri. «Di loro parla solo dopo la loro morte ( negli anni 90, ndr) - dice il legale - Erano ormai innocui, mentre Johnny era ed è ancora pericoloso e rimane l’unico a poter entrare nelle indagini sulla morte di Pier Paolo».

UNA NUOVA RIAPERTURA DEL CASO?

Marazzita non la esclude. «Potrebbe capitare l’occasione, con magistrati seri, capaci di approfondire. In quel caso, con l’autorizzazione di Graziella Chiarcossi ( la nipote, ndr), la chiederei. E vorrei approfondire i rapporti tra Pelosi e Mastini, perché e quanto si vedevano, se avevano commesso reati insieme», ha aggiunto. E la cassetta di sicurezza? «Non esiste. Perché non è uscita fuori prima?». L’ultimo cenno è al suo rapporto con Pelosi. «Mi vedeva come un nemico. Aveva paura delle mie domande. Poi, con gli anni, incontrandomi spesso ha finito per considerarmi uno di famiglia». Ma non abbastanza da spiegare perché Pasolini è morto. «Quello non lo sapremo mai».