La rivoluzione dei cyborg è cominciata, loro sono già tra noi. In forma ancora sperimentale certo, ma il processo è avviato e sembra inarrestabile. In Svezia, per dire, sono già quasi duecento i dipendenti dell’azienda Epicenter che hanno impiantato sottopelle il microchip Rfid e sono decine gli impiegati in coda per farselo impiantare.

Chi è già dotato del dispositivo assicura che l’intervento è indolore: il chip è grande quanto un chicco di riso e una volta iniettato con una siringa a microago tra il pollice e l’indice ti scordi di averlo. A chi lo possiede dà il potere di muovere certe funzioni della realtà senza azione fisica: i dipendenti dotati del chip sono in grado di timbrare il cartellino, lavorare a distanza con le macchine dell’azienda, fare acquisti imponendo una mano. «Il maggiore beneficio of- ferto dal chip è convenienza e praticità - dice Patrick Mesterton, cofondatore e amministratore delegato di Epicenter - perché ti offre funzioni multiple senza ricorrere a carte di credito, documenti d’identità o chiavi». Certo c’è un problema di privacy: cosa fai, cosa acquisti e a che ora del giorno non è più solo affare tuo; ma sembra essere un dettaglio trascurabile. Interpellati i dipendenti di Epicenter polo di aziende di information technology e startup – dicono di fidarsi ciecamente della giurisdizione svedese in materia che è molto rigorosa. Peraltro avere il microchip dà status o almeno ti fa sentir parte d’una avanguardia. Resta da determinare di quale avanguardia si tratti: la pattuglia svedese dell’Epicenter, con la rottura della barriera cutanea per l’innesto tecnologico, potrebbe costituire la testa di un corpo che sta entrando nella dimensione trasformativa della forma umana da parte della tecnica. La rivoluzione dei cyborg è già cominciata?

Ray Kurzwe il direttore ingegneristico di Google e pioniere delle tecnologie del riconoscimento ottico dei caratteri ha previsto che entro il 2040 – una ventina d’anni, non un secolo – l’intelligenza artificiale supererà quella umana e s’aprirà una partita tra uomini e cyborg. Considerando che Blade Runner era ambientato nella Los Angeles del 2019 se ne deduce che ancora una volta aveva ragione il vecchio Borges: la realtà appartiene al genere fantastico. Si dimenticava: nel 2016 il Darpa, l’agenzia di ricerche avanzate della difesa americana, ha presentato ufficialmente un programma di ricerca chiamato Neural Engeneering System Design, Nesd, che mira a sviluppare un’interfaccia neurale impiantabile su soldati scelti per missioni particolari. Ricerche ancora sperimentali che indicano tuttavia una linea vettoriale chiara e che conferiscono all’immagine di Kurzweil, “la partita tra uomini e cyborg”, un alone meno sportivo e più inquietante. Tanto che anche i russi si stanno attrezzando “Lo sviluppo di un robot soldato è una delle priorità del settore militare nazionale. Lo scopo è sostituire l’uomo in situazioni rischiose o dannose” si leggeva qualche mese fa nella Komsomolskaya Pravda in riferimento al progetto di ricerca “Iron Man” condotto dalla Fondazione Russia per gli Studi avanzati ( il corrispettivo russo del Darpa). Il robot soldato si dovrebbe chiamare Ivan: in una prima fase sarà eterodiretto come in un videogioco ma poi dovrebbe guadagnare la sua autonomia: diventerà insomma un androide. Ma è solo un primo gradino, il successivo – e su questo gli studi di americani e cinesi sono più avanzati – dovrebbe essere la creazione di cyborg militari: esseri umani potenziati con innesti artificiali in grado di moltiplicarne le capacità cognitive. Non è solo la ricerca militare ad applicarsi alla materia, anche quella medica avanza su questo terreno: il progetto qui è realizzare un’interfaccia corticale che consentirà di integrare le funzioni del cervello umano con dati del computer: un modo per malati di alzheimer e per le vittime di lesioni cerebrali di recuperare le funzioni perdute. A questo sta lavorando la società Neuralink garantendo i primi risultati entro il 2022, una manciata d’anni da ora.

Applicazioni aziendali e militari ma anche mediche: la tecnica sembra confermare la qualità che il discorso comune è abituato ad attribuirle: la neutralità. “La tecnica non è in sé né buona né cattiva: dipende dall’uso che si fa di essa”, recita il luogo comune. Ma è proprio così? Secondo quei pensatori che hanno meditato le implicazioni della tecnica fin nel profondo la verità è meno rassicurante. «Gli scopi dell’uomo finiscono con il servire l’unico scopo che li domina tutti», sostiene Emanuele Severino, per il quale il nichilismo è il destino dell’occidente trascinato sempre più lontano dall’Essere dall’indefinito potenziamento della tecnica. Non il chip, l’androide o il robot per l’uomo dunque ma il contrario. Tuttavia vi è chi è convinto della verità opposta, come i filosofi del transumanismo, persuasi che l’umano consista nel suo progetto piuttosto che nella sua ontologia. Il post umano preparato dai filosofi della decostruzione – Deleuze e Derrida e dinamizzato dal transumanismo di More, Minsky e Huxley - poggia infatti sull’idea espressa con sintesi efficace già sedici anni fa da Marc Jongen sul settimanale Die Zeit che “l’uomo è in definitiva il suo proprio esperimento”. L’umano per come lo abbiamo conosciuto insomma, anche nella versione dell’homo faber, diventa un’idea datata, un prodotto storico di fatto già superato dalle biotecnologie. È così che la difesa dell’idea di un soggetto personale irriducibile a ogni forma di decostruzione o artificio viene registrata tra i sussulti terminali del vecchio umanesimo. L’estensione del dominio della tecnica, l’avvento dell’antropotecnica – il “parco umano” concepito come supporto entro cui possono essere iscritte informazioni e apportate modifiche ed estensioni funzionali – viene ormai percepito come una fatalità necessaria non più solo da avanguardie intellettuali ma dal corrente senso comune. Necessità rispetto alla quale opporre una resistenza in nome dello specifico umano oltre che inutile e anche un po’ patetico risulta essere illogico. Senonché ora la partita comincia a segnare la qualità del vivere quotidiano, a impegnare scelte, posizioni etiche, a determinare condizioni di vita: la tecnica ha cominciato a modificare il corpo, la genetica, le funzioni umane, la politica, il confronto e la strategia militare. Tuttavia l’avvento del microchip sottocutaneo - di fatto una segnatura profonda della persona da parte d’un potere esterno capace di agire sui soggetti a lui legati anche a distanza – così come gli esperimenti militari su androidi e robot soldati è stata accolta con una certa generale indifferenza con buona pace rispetto agli allarmi lanciati da mezzo secolo di letteratura distopica. Si tratta di laicità o invece di un atteggiamento ormai passivo rispetto ai mezzi dell’apparato tecnico? Se così fosse sarebbe in effetti un problema molto serio considerando che la tecnica è una forza senza etica. Certo, la storia è piena di esempi di scienziati che hanno resistito e si sono arrestati di fronte a scelte che mettevano in campo la coscienza, ma è anche piena di esempi contrari: la resistenza di alcuni non ha impedito Hiroshima per dire. È che la coscienza individuale da sola non basta: sarebbe necessaria una legislazione in materia a livello transnazionale, ma ciascuno ne vede la difficoltà.

Visioni transumane. Tecnica, salvezza, ideologia ( Orthotes edizioni) di Antonio Allegra, docente di storia della filosofia all’Università per Stranieri di Perugia, è un saggio appena uscito sui temi di cui stiamo discorrendo. Il postumano, o il transumano proseguirebbero il discorso superomista nietzschiano salvo che qui la tecnica diventa “un’escatologia, un’ideologia potente di tipo salvifico che sostituisce sia l’antica religione sia le religioni politiche del novecento. Da questo punto di vista la tecnica e le sue promesse incanalano le speranze fondamentali dell’umano: la salvezza, l’immortalità, la liberazione, rimuovendo tuttavia il limite dell’umano a cominciare dal suo tratto specifico: il pensiero della morte e l’angoscia sul senso del proprio essere nel mondo. Le condizioni che Heidegger poneva per una vita autentica. L’ideologia transumanista fornisce così una soluzione ingenua e perciò potentissima all’aspirazione di liberazione coltivata dall’umano: la sua sofferenza dettata dal limite, dovrebbe essere superata abolendo di fatto l’uomo.

Di fronte a questo scenario in via d’incarnazione, l’archetipo umano dispone ancora tra gli uomini di questo tempo di un pensare capace di difenderne le prerogative? Capace di una risposta alla rivoluzione dei cyborg già in corso? Il dibattito è aperto.