Sul “Corriere della Sera” è apparso un articolo di Massimo Gramellini intitolato “ Davigo vertical”. È una tipica espressione spagnola, l’hombre vertical, molto lusinghiera, che indica l’uomo tutto d’un pezzo, coerente, serio, incorruttibile.

Mi è venuto da chiedermi cosa sarebbe successo se sul “Corriere della Sera” fosse apparso un articolo altrettanto adorante, e firmato da una delle firme più prestigiose del giornale, rivolto all’esaltazione di qualche leader politico. Renzi, magari, o Berlusconi, o Alfano, o Salvini o – al limite – Grillo. Oppure se un panegirico di stile gramelliniano fosse stato pronunciato in Tv, dedicato a un uomo di governo. Sarebbe successa l’iradiddio e il malcapitato adoratore avrebbe capito in un batter d’occhio di essere giunto a fine carriera. Giornalismo horizontal. L’ossequio al giudice è sempre ammesso

Gramellini invece è solo all’inizio di una carriera che sarà – ve lo garantisco – di grande, grande successo.

Qual è la differenza tra Davigo e – poniamo – Gentiloni? Come mai se osanni Gentiloni sei degno di disprezzo e se osanni Davigo sei un giornalista coraggioso?

A occhio non c’è nessuna differenza tra i due: Davigo e Gentiloni sono rappresentanti del potere, e dunque – vorrebbe una versione forse un po’ antica della deontologia professionale giornalistica – dovrebbero sempre essere osservati con occhio critico dai giornalisti, tenuti a distanza, non celebrati.

In realtà uno dei due è molto più potente dell’altro. Davigo ha assunto un ruolo di comando nella magistratura, fino al vertice dell’associazione magistrati, è un giudice di Cassazione, ha un ascolto altissimo nei giornali e nelle Tv, ha a disposizione persino un partito politico, e cioè i 5 Stelle, cosa che - paradossalmente – Gentiloni neanche si sogna. Davigo decide sulla politica della giustizia molto più di Gentiloni, è in grado di guidare campagne di opinione che possono bloccare qualunque provvedimento del governo. E infatti ha bloccato la riforma- Orlando. Del resto lo ha detto lui stesso, proprio l’altro giorno, all’assemblea del suo partito di riferimento ( i 5 Stelle): «Non entro in politica perché ho molta più forza se resto fuori». Davigo orienta la magistratura e anche la politica, e se lui chiede più carcere ottiene più carcere. Influenza le sentenze dei suoi colleghi e frena i provvedimenti di clemenza. Intimidisce i tribunali di sorveglianza. Probabilmente Gentiloni sarebbe favorevole all’amnistia o a una riforma garantista del codice penale. Non può, ha le mani legate da un potere molto più grande del suo.

La risposta alla domanda sul “diritto di ossequio” è esattamente questa. L’ossequio andrebbe evitato, ma se proprio va reso allora conviene renderlo al più forte. Il potere politico da anni è in verticale caduta, e non è strettamente necessario rendergli omaggio. Il potere di un pezzo di magistratura è in esponenziale crescita, sta allargandosi attraverso una nuova ferrea alleanza con la stampa e pezzi della Tv, ed è molto pericoloso opporsi. Un tipo come Davigo - dicono che sia anche permaloso – va tenuto nel giusto conto. Talvolta, non c’è niente di male: anche i giornalisti possono accettare di diventare hombre orizontal.

Il bello è che ci sono alcuni giornali che ogni tanto pubblicano le classifiche dei giornalisti subalterni. Il Fatto Quotidiano, per esempio, li chiama i “lecca lecca”. State pure certi che non metterà Gramellini nell’elenco. Né metterà lo stesso Travaglio, che l’altro giorno, intervistando il Pm palermitano Di Matteo, è riuscito a fare una sola domanda, formulata più o meno così: “Lei ha già risposto a tutte le domande che avrei voluto farle, prima ancora che io gliele facessi... ”. Esempio sfrontato di giornalista guascone che non guarda in faccia all’intervistato.

Del resto poco prima dell’intervista a Di Matteo, e nella stessa sede ( gli stati generali sulla giustizia tenuti mercoledì scorso a Roma dal movimento 5 Stelle) una giornalista di Repubblica aveva dichiarato candidamente: «Non posso non unirmi, anche se non dovrei, all’ovazione per Davigo». Almeno lei ha aggiunto, sottovoce, quelle quattro paroline: «anche se non dovrei...».

Naturalmente non ha nessun senso parlare di giornalismo di regime. Come non aveva senso farlo qualche anno fa, quando imperava Berlusconi, non lo ha neppure ora che impera Grillo. Però per chi fa il giornalista è giusto fare qualche attenzione al fenomeno. Il giornalismo italiano si sta piegando sempre di più alla cupola del giustizialismo. Gli spazi per i liberali e i garantisti sono diventati stretti stretti. Non è il caso di piangersi addosso, però non c’è ragione per nasconderlo.