«Anche in famiglia lo chiamavano Mr President. Fu l’uomo della speranza per una nuova America». Furio Colombo, giornalista e scrittore e a lungo corrispondente dagli Stati Uniti per La Stampa e La Repubblica, ha conosciuto da vicino la famiglia Kennedy e a JFK ha dedicato un libro. Nel centenario della sua nascita, lo ricorda come il presidente che cambiò gli Stati Uniti proiettandoli nel futuro.

Cominciamo dagli ultimi istanti della vita di JFK. Lei ricorda dove si trovava quando seppe della sparatoria di Dallas?

Tutti ricordano dov’erano il giorno dell’omicidio di Kennedy. Io ero in Park Avenue a New York, davanti all’edificio numero 1, fuori dal mio ufficio. Ricordo che avvenne come in una moviola: tutti si fermarono quasi istantaneamente, nello stesso momento. Allora non esistevano gli smartphone ma tutti avevano le radioline portatili a transistor, che ascoltavano mentre si spostavano da un lato all’altro della città. La notizia si sparse in un attimo, la folla rimase immobile, come in un esperimento cinematografico.

Che traccia ha lasciato il mistero ancora in parte irrisolto che è l’omicidio di Kennedy?

Con il 22 novembre 1963, abbiamo cominciato a imparare che esistono domande alle quali non ci sono risposte. Di più, dopo Dallas abbiamo cominciato a convivere con l’esistenza politica e pubblica di fatti che non sono logici, non sono spiegabili nè spiegati e così sono destinati a rimanere.

A quale delle tante ricostruzioni dà più credito? Io non ho mai avuto fiducia nelle tante e successive inchieste, pubbliche e private. Ho sempre ritenuto più utile attenermi al rapporto Warren. È chiaro che non contenesse la verità, ma rivelava una verità possibile e soprattutto mostrava l’impossibilità non tanto di sapere ma di dire di più, da parte di coloro che in quel momento avevano un certo grado di potere.

Nel suo libro “L’America di Kennedy” lei parla del presidente come di un uomo della speranza.

Bisogna riportarsi al tempo in cui eravamo, il 1960, e incorniciare l’immagine di Kennedy in un’America governata da Eisenhower e da Nixon. Eisenhower se non altro era il buon ricordo di una guerra vinta contro il fascismo, ma Nixon era l’uomo di una destra misera, persecutrice, incapace di guardare al mondo del dopoguerra e alle enormi possibilità che si aprivano per gli Stati Uniti.

E John Kennedy cosa ha rappresentato per questa America?

Kennedy è la persona giovane, colta, piena di grazia e di stile che vede, sa, interpreta e soprattutto rappresenta un mondo che pone il futuro dove deve stare: davanti. Come tale, diventa istantaneamente l’immagine della speranza, in accordo con l’istinto umano di pensare che il domani sarà migliore dell’oggi.

Lei l’ha frequentata: che famiglia era quella dei Kennedy?

Io sono stato molto molto amico, sin dal mio arrivo a New York, di Jean Kennedy Smith, una delle sorelle di John, Bob e Ted. Lei fu l’unica donna della famiglia a fare politica, oltre ad essere stata una protagonista della vita sociale e ambasciatrice a Parigi nominata da Clinton. Tra i fratelli ho avuto rapporto più affettuoso con Ted, insieme al quale ho fatto campagna elettorale quando venne eletto senatore per la prima volta in Massachusetts. Mi chiamò perché era indispensabile avere qualcuno che parlasse italiano, poichè in quello stato c’erano molti italiani e non parlavano volentieri inglese. Successe così che, da allora e ad ogni sua successiva elezione, lui mi chiamava e io mi organizzavo per fare almeno un giorno della sua campagna elettorale nei circoli degli italiani. Poi, nel 1968, feci lo stesso anche con Bob, ogni giorno da quando si candidò fino al giorno del suo omicidio.

I fratelli come parlavano di Jack?

Ciò che ho notato è che sempre, anche mentre lui era in vita, i fratelli parlando di lui lo chiamavano Mr President. Solo Jackie, la moglie, lo chiamava Jack. L’idea della presidenza era molto forte, molto sentita e molto vissuta nella famiglia Kennedy.

Quei mille giorni di presidenza Kennedy hanno davvero cambiato gli Stati Uniti?

Assolutamente, in modo profondo e irreversibile. Il suo impatto è rimasto forte persino quando gli Stati Uniti sono stati governati da Reagan, dai due Bush e ora da Donald Trump.

Quale è stato il suo lascito?

Penso subito al fatto che ora si parla di “resistence” nei confronti di Trump. New York, tutta la costa est e la costa ovest discutono di resistenza e questo deriva dalla consapevolezza dell’importanza dei diritti civili che vengono prima dei diritti privati e della ricchezza. Ecco, proprio questo elemento è stato fondante della presidenza di Kennedy.

In molti hanno parlato di Obama come del suo ideale successore. Quello tra Obama e JKF è un paragone calzante?

È assolutamente calzante. Obama non sarebbe diventato presidente degli Stati Uniti se non ci fosse stato Martin Luther King, e Luther King è stato un personaggio di immenso rilievo della politica americana perchè dalla Casa Bianca aveva un interlocutore come Robert Kennedy e un punto di riferimento come John Kennedy. Pensi a Obama in questi giorni a Berlino: sembrava una straordinaria replica di Kennedy quando pronunciò il famoso discorso “Ich bin ein Berliner”.

L’immagine di Kennedy davanti alla porta di Brandeburgo è forse una delle più iconiche. Quanto ha contato la sua capacità di apparire nella sua consacrazione politica?

Ha contato, ma senza esagerare. Il punto non era la telegenia ma ciò che diceva, che era estremamente nuovo, intelligente. John Fitzgerald Kennedy vedeva un’America del futuro, in cui la potenza non serviva per dominare ma per co- governare il mondo.

Chi ha raccolto questa eredità politica?

Personaggi molto diversi tra loro. Io penso a Jimmy Carter, che è stato un presidente di pace e l’unico che ha restituito qualcosa di americano al mondo, cioè il Canale di Panama. Poi Clinton e infine naturalmente Obama, che considero il più grande dopo Roosevelt e Kennedy.