«La commemorazione al Csm ha avuto uno straordinario valore simbolico, perchè ha segnato la distanza tra i giudici di oggi e quelli che allora sedevano su quegli scranni». Alberto Cisterna, ex viceprocuratore nazionale antimafia e una lunga carriera da magistrato in Calabria, racconta l’eredità di Giovanni Falcone, ma anche le trame di chi prima della strage di Capaci lo isolò e oggi lo esalta.

Come ha affrontato la magistratura i momenti immediatamente successivi la strage di Capaci?

La strage avviene nel momento particolarmente delicato della procedura di nomina del Procuratore nazionale antimafia. Una nomina condizionata da polemiche roventissime, visto che molta parte della magistratura italiana, in modo silente o palese, contrastava l’idea di vedere a quell’incarico Giovanni Falcone. Dopo Capaci, quella stessa magistratura si trovò di fronte al problema di riposizionarsi in modo credibile, pur dopo aver contrastato aspramente Falcone.

E come si concluse la contesa?

Di questa difficoltà di certa magistratura fece ingiustamente le spese il procuratore Cordova, leale competitor di Falcone, il quale venne accantonato. Quasi che i magistrati italiani, eliminandolo, volessero pulirsi la coscienza. Cordova aveva tutti i requisiti per ricoprire l’incarico ed è singolare che sia stato travolto lui, ma non quelli che invece con Falcone polemizzavano. Cordova fu il capro espiatorio di quanti dovevano sciacquare i panni nel nuovo assetto politico e istituzionale che quell’evento tragico ha determinato.

Che cosa ha provocato questa avversione nei confronti di Falcone?

Sentimenti banali, ma non per questo meno violenti, come l’invidia e il timore. All’epoca Falcone era uno dei magistrati più noti al mondo e nessun nano o ballerina poteva fargli ombra, ma a preoccupare era che, insieme a lui, emergesse anche un nuovo modello di magistrato. Ciò che si intendeva contrastare, oltre alla sua persona, era anche il suo approccio, tutto incentrato sulla professionalità e lontano dagli approdi correntizi, dalle tutele istituzionali, dai comparaggi palesi o occulti.

Il timore era che fosse troppo autonomo?

Il suo essere così focalizzato sul metodo era un aspetto inviso a moltissimi. Se questo suo approccio fosse passato, la stessa magistratura avrebbe rischiato di diventare qualcosa di diverso e forse non gradito ai più.

Alla cerimonia di commemorazione al Csm, la sorella Maria Falcone ha detto esplicitamente quanto quell’Aula abbia ferito Giovanni.

Un’istituzione come il Csm cammina sulle gambe degli uomini. Io trovo giusto e anche ammirevole che si sia deciso di commemorare Falcone in quell’aula, con uno straordinario valore simbolico. Chi rappresenta oggi le istituzioni ha deciso di segnare un punto di distanza da qualunque torto Falcone abbia subito dagli uomini che rappresentavano le istituzioni allora.

Pochi sono stati quelli che hanno fatto autocritica.

Quelli che lo hanno contrastato in buona fede hanno tutti successivamente riconosciuto di essersi spinti troppo in là, ma la loro percentuale non è elevata. Gli altri sono rimasti silenti e hanno fatto finta di nulla, confidando sul fatto che questo è un Paese che dimentica facilmente. La giustizia ha fatto molti passi avanti per individuare le responsabilità della strage, mentre il versante delle responsabilità politiche dentro e fuori la magistratura ha il conto ancora in rosso.

La sua eredità di magistrato è il cosiddetto “Metodo Falcone”: in cosa consiste?

Oggi il metodo Falcone è l’unico ad esistere, per ciò che riguarda la lotta alla mafia. Il metodo si fonda su una estrema attenzione al fenomeno della criminalità organizzata nella sua dimensione non soltanto criminale e delittuosa, ma anche in quella economico- finanziaria e istituzionale. All’epoca la magistratura si muoveva ancora con metodologie di indagine basate sul rapporto della polizia giudiziaria e sui confidenti, in maniera parcellizzata. Falcone è stato il primo a porre al centro dell’indagine la sconfitta della mafia: prima tutte le indagini cercavano i colpevoli di omicidi o estorsioni, lui invece puntava alla sconfitta del fenomeno criminale. Le sue indagini erano un ciclo continuo di investigazioni, in modo da costituire una continua erosione del potere mafioso.

Una delle accuse che gli vennero mosse è di non aver dato adito alle dichiarazioni di un pentito contro Andreotti.

La componente fondamentale dell’atteggiamento di Falcone è stata la prudenza nel valutare le dichiarazioni dei collaboratori, soppesandole e comprendendone la valenza giudiziaria. Lui ha soppesato le carte e poi le ha messe da parte. D’altra parte, basta vedere gli esiti dei processi a carico di quelle persone: tutti assolti. Ecco, se lo si vuol tacciare di prudenza, gli si può contestare che non abbia prodotto assoluzioni. Ma non credo fosse quello il suo compito.

E’ stato quindi fumo mediatico?

Guardi, allora si è fatto dei pentiti e oggi si fa delle intercettazioni un uso spesso puramente mediatico. Finiscono nel circuito frasi e illazioni che non hanno alcuna possibilità di essere portate in un aula di giustizia, ma vengono comunque messe nel ventilatore del fango. Falcone ha insegnato a non fare queste cose e la sua attenzione è sempre stata rivolta alla qualità giudiziaria e non mediatica del materiale raccolto.

Il maxiprocesso fu la vittoria dello Stato sulla mafia. Che cosa rimane ai magistrati di oggi?

E’ indimenticabile la frase di Paolo Borsellino detta a Falcone, dopo la conferma della sentenza: «Abbiamo vinto e forse anche troppo». Questa la frase segna la moralità del giudice, che ha timore di aver ottenuto un risultato al di là del merito del processo. Quale dei protagonisti della vita giudiziaria di oggi lo direbbe mai oggi? Eppure la coscienza di Falcone e Borsellino faceva avere loro paura di sbagliare, anche col peggiore dei mafiosi.