«La Costituzione tutela il diritto alla difesa e pubblicare quelle intercettazioni ha violato il rapporto avvocato- cliente, essenziale per la democrazia». L’avvocato Valerio Spigarelli, ex presidente dell’Unione Camere Penali e professore di procedura penale presso la scuola di specializzazione per le professioni legali de La Sapienza di Roma, commenta il contenuto lo “scoop” del Fatto Quotidiano, che sul quotidiano di ieri 18 maggio, a dato spazio ai virgolettati di una telefonata intercettata tra l’avvocato Federico Bagattini e il suo cliente, Tiziano Renzi.

Avvocato, proviamo a mettere ordine. Era pubblicabile la conversazione tra Tiziano Renzi e il suo legale

Assolutamente no, e quanto pubblicato da Il Fatto Quotidiano è l’ennesimo episodio che dimostra l’assoluta inciviltà del nostro ordinamento, con riguardo al rispetto delle guarentige del difensore. L’articolo 103 del codice di procedura penale infatti, dice chiaramente che non è consentita l’intercettazione relativa a comunicazioni tra difensori e le persone da loro assistite.

Come è tutelato dall’ordinamento il rapporto cliente- avvocato?

«Il diritto di difesa è inviolabile», lo stabilisce l’articolo 24 della Costituzione. Poi gli articoli 96 e seguenti del codice di procedura penale disciplinano l’inviolabilità dei rapporti avvocato- cliente, che in democrazia è un rapporto essenziale. Di più, è quello che distingue gli ordinamenti giuridici democratici e quelli che non lo sono. E l’Italia su questo tema deve ritrovare la strada smarrita.

E come è potuto accadere, quindi?

Il fatto che sui giornali finiscano le conversazioni tra un avvocato e un suo assistito è uno scandalo che dimostra come, evidentemente, la privatezza di quelle conversazioni non sia sufficientemente tutelata. Di questo ha colpa anche la giurisprudenza di Cassazione, che non ha difeso questo principio, sostenendo che gli inquirenti possano prima ascoltare e poi decidere se la comunicazione è inascoltabile. Una giurisprudenza a cui l’avvocatura si è sempre opposta, chiedendo di rafforzare i divieti, anche perchè l’ascolto preventivo spesso permette all’accusa di scoprire anche la strategia processuale difensiva.

Che cosa stabilisce la giurisprudenza di Cassazione?

La giurisprudenza legittima una sostanziale presa in giro, stabilendo che prima di bloccare l’intercettazione si debba accertare se il cliente parla con l’avvocato di vicende private o di questioni attinenti alla sua posizione legale. Qui si pone un problema di civiltà giuridica.

E quale sarebbe?

Sostenere che prima la conversazione vada ascoltata, poi si verifichi che si tratti di una conversazione che attiene al mandato difensivo e che non ricorrano ipotesi di reato, per stabilirne il mancato utilizzo, sottintende una potenziale criminalizzazione preventiva dei colloqui tra avvocato e assistito. La giurisprudenza elude lo spirito della legge e la vanifica, arrivando a stabilire il principio che la conversazione è liberamente ascoltabile. Folle.

E l’avvocatura come si è posta rispetto a questa giurisprudenza maggioritaria?

Chiedendo che venga stabilita una guarentigia più forte e che sia vietato l’ascolto e qualsiasi utilizzazione delle comunicazioni tra legale e assistito, e anzi che debba essere immediatamente interrotto l’ascolto nel caso in cui ci si accorga che a parlare sono avvocato e cliente. Sarebbe fondamentale, però, un differente approccio della Cassazione, che è con tutta evidenza scarsamente sensibile al tema.

La magistratura inquirente, invece, come ha risposto?

L’obiezione è che non è colpa di chi ascolta, perchè le registrazioni sono automatiche e dunque senza operatori. Non è vero, però, perchè spesso gli operatori sono all’ascolto, quando ad esempio nel caso in cui debbano prevenire dei reati. E allora si trovino delle forme: ad esempio interrompendo la registrazione ogni volta che il cliente compone il numero dell’avvocato.

A suo modo di vedere, la responsabilità è di chi passa sottobanco le intercettazioni o del giornalista che le pubblica?

Io credo che alla base ci sia un problema sociale: ormai siamo abituati a veder pubblicato il contenuto delle intercettazioni per la sola ragione che sono interessanti. In sostanza, se qualcosa che si dicono due personaggi pubblici è interessante, i giornalisti la pubblicano. Attenzione, però, c’è un equivoco: l’affievolimento del principio costituzionale di intangibilità delle comunicazioni è giustificato solo dalle esigenze di giustizia. Il che significa che l’intrusione non può essere giustificata per tratteggiare il profilo etico- morale di una persona, che non ha nulla a che vedere col processo.

E come è possibile che non si scopra mai la “talpa”?

Lo ha detto bene Gratteri: sarebbe facilissimo sapere chi è stato, perchè le conversazioni sono archiviate in un sistema informatico ed è registrato chi le scarica e quando le scarica. Individuare chi lo fa e con il consenso di chi sarebbe semplice, quindi. Il punto è che c’è uno scarso controllo di chi ha la possibilità di individuare le violazioni, e proprio questo ha permesso la situazione incivile a cui siamo arrivati. Non solo, la pubblicazione nel corso delle indagini è vietata dal codice di procedura penale e l’articolo 115, che nessuno cita mai, obbliga il procuratore della Repubblica che verifica la violazione a segnalare all’ordine dei giornalisti chi l’ha commessa. Le risulta succeda mai? Siamo nel pieno dell’illegalità e nessuno controlla, nemmmeno sotto il profilo disciplinare.

Il direttore del Fatto Quotidiano, Marco Travaglio, ha detto che in questo modo i giornalisti sono controllori del potere, «come ai tempi del Watergate».

Non mi si venga a parlare del Watergate. No, i giornalisti del Watergate si sono andati a trovare le notizie, non scrivevano le veline delle questure e degli uffici investigativi. Questa continua pubblicazione di atti giudiziari dimostra che ci sono giornalisti con canali privilegiati, che ottengono atti processuali anche in violazione della legge, ma questa contiguità non è la dimostrazione di un controllo del potere, semmai il contrario.