L’articolo 90 della nostra Costituzione suona così: «Il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione. In tali casi è messo in stato di accusa dal Parlamento in seduta comune, a maggioranza assoluta dei suoi membri».

L’articolo II ( The Executive Branch) alla Section 4 ( Disqualification) della Costituzione degli Stati uniti d’America suona invece così: « The President, Vice President and all civil Officers of the United States, shall be removed from Office on Impeachment for, and Conviction of, Treason, Bribery, or other high Crimes and Misdemeanors ». Ovvero: per tradimento, corruzione e altri gravi misfatti e violazioni.

Ne risulta che il nostro ordinamento è più preciso e circostanziato e prevede, per provare a rimuoverlo, che il presidente della Repubblica stia diventando il suo peggior nemico; nello stesso tempo, mette il presidente in una posizione “superiore”, mentre nella Costituzione americana – che pure è più imprecisa, in quella nominazione di “gravi violazioni” che può significare tutto e niente – il presidente è “ancora” un cittadino qualunque.

Ma comparare lo statuto dell’impeachment di Costituzioni diverse è solo un esercizio formale, troppo diversi ne sono gli spiriti e la storia a seconda delle nazioni.

In Brasile, l’anno scorso, è stata avviata una procedura di impeachment nei confronti del presidente Djlma Roussef, che era succeduta a Lula. Ma solo nel bel mezzo di uno scontro sociale senza precedenti – e in una evidente crisi economica che stava sbriciolando il consenso – e in una notte dei coltelli, la Roussef, che si era sospesa, subì il voto di destituzione da parte del Senato.

Da noi, ci provò Occhetto a mettere in impeachment il presidente del tempo, Cossiga, “il picconatore”. Il fatto è che Cossiga stava picconando non solo gli equilibri costituzionali, ma soprattutto il suo partito, la Democrazia cristiana che non avrebbe poi visto di malocchio che venisse messo sotto accusa. Ma Cossiga era un osso duro, ben ammanicato con poteri, militari e servizi ( Occhetto ne voleva la testa per via di “Gladio”, l’organizzazione segreta dal dopoguerra che avrebbe dovuto impedire anche militarmente l’avvento dei comunisti al potere) e resistette, e Occhetto traccheggiò troppo. Alla fine, Cossiga si dimise un mese prima dello scadere del suo mandato.

Occhetto provava a rinverdire i “fasti” della caduta del presidente Leone, “fatto fuori” da una campagna di stampa e di opinione aggressiva che individuava in lui il vero Antelope Cobbler del caso Lockheed – anni dopo, Pannella, che ne era il promotore nelle piazze disse che era stato un grave errore e restituì l’onore a Leone.

Insomma, da noi non si è mai avviata una procedura vera di impeachment del presidente, anche perché – proprio per come viene configurato il “reato” – essa apre una situazione di crisi istituzionale gravissima ( forse fu questa considerazione che trattenne Berlusconi, che pure aveva una maggioranza significativa, dall’attivarla contro Scalfaro).

Negli Stati uniti invece, essa ha un carattere di reale possibilità: il presidente è un uomo come gli altri. Quando fu messo sotto accusa Bill Clinton, non fu per quella sua pur controversa e miserevole storia con la stagista Lewinsky, ma per aver mentito su quella storia. Certo, i repubblicani, al tempo, non avevano la forza per dare la spallata – la procedura precede che almeno i due terzi del Senato, che è il “collegio giudicante”, votino favorevolmente, quindi al di là delle maggioranze di partito – e Clinton, la cui presidenza è da tutti considerata come una delle migliori della storia recente americana, si salvò.

A un pelo dall’affossamento andò invece il presidente Andrew Johnson, che era succeduto a Lincoln, assassinato da un sudista invasato. La cosa curiosa è che Johnson non voleva penalizzare eccessivamente gli Stati del Sud usciti già massacrati dalla Guerra civile – era questo il suo “high misdemeanor”. Si salvò, davanti al Senato, per un solo voto.

Più complessa la storia di Richard Nixon e della “gola profonda” del Watergate – Mark Felt, all’epoca numero due dell’Fbi, che non era stato promosso direttore e che probabilmente si vendicò passando ai giornalisti del «Washington» tutte le informazioni sugli “idraulici della Casa Bianca”, ovvero il gruppo di persone che spiavano le mosse dei Democratici – che lo mise in crisi. Nixon si dimise proprio per non andare incontro a una inevitabile procedura di impeachment nei suoi confronti. Insomma, per non aprire una crisi istituzionale grave.

Lo stesso Felt, il cui ruolo rimase nascosto per venticinque anni, quando si rivelò disse che non era sua intenzione far cadere Nixon, ma solo «fare il proprio dovere». Eppure, anche il vice di Nixon, Spiro Agnew, si era dimesso un mese prima, per un probabile episodio di corruzione. E Agnew veniva dato come il runner più favorito alle prossime primarie repubblicane. È così che divenne presidente Gerald Ford, perché lui era diventato vicepresidente al posto di Agnew.

Insomma, è evidente che intorno alla procedura di impeachment ruota sempre una diversa collocazione di poteri, che fa leva su sentimenti personali. Non è difficile credere che questa sia, al momento, la situazione in America, dopo l’inattesa vittoria di Trump e la sua irruenza nei primi mesi di presidenza. Più difficile credere che sia già giunto il suo tempo. Vediamo.