Questo 2017 è senz’altro l’anno di Andy Capp, una delle più popolari icone del fumetto e dell’immaginario novecentesco tout court. Se il simpatico personaggio delle strisce nasceva infatti nel 1957, e sono già sessant’anni, il suo autore, Reg Smythe, aveva avuto la luce proprio un secolo fa, il 10 luglio del 1917. Infine, la notorietà italiana di Andy è databile a cinquant’anni fa esatti, con la pubblicazione dei suoi fumetti sul periodico Eureka.

Perché allora non fare il punto sull’identità e l’universalità di un’icona affermatasi globalmente come simbolo di un preciso atteggiamento esistenziale e, a detta di qualche studioso, addirittura antropologico- culturale? Andy, infatti, con la sua coppola eternamente ammosciata e la sigaretta sempre penzolante, a cui non ne va mai bene una, tutto casa e bar, le sue partite di calcio e le sue scommesse ai cavalli, è una figura che ha fatto scattare – da subito – un sentimento di identificazione universale. Da quell’esordio nel ’ 57 sul Daily Mirror le sue strip hanno fatto in brevissimo tempo il giro del mondo mettendo in sordina la sua stessa esteriorità tutta britannica.

Si leggeva sul Time già nel ’ 63: «Andy Capp può essere turco, inglese, greco, italiano e anche polacco. I nostri lettori si sono abituati e affezionati a lui nel giro di una settimana: egli rappresenta, come ci ha detto uno di loro, tutto ciò che essi amano essere». Eppure, a osservarlo con attenzione non dovrebbe ( e potrebbe) essere un modello cui ispirarsi. È alto poco più di un metro e cinquanta, è sui quarantasei anni, un po’ appesantito sulla pancia e i fianchi, con una moglie per niente avvenente. Il suo berretto gli nasconde gli occhi, ma lui non se lo toglie mai, neanche quando va a letto o durante i suo rari appuntamenti con la tinozza del bagno. La sigaretta gli pende perennemente dalle labbra e il suo naso bitorzoluto gli si arrossisce ogni qualvolta si ubriaca, il che avviene quasi tutte le sere. Non ha un impiego fisso, vive col sussidio di disoccupazione che pretende come se lo guadagnasse lavorando. È alquanto egoista, burbero, non le manda a dire. E cosa c’è di affascinante e di divertente in tutto questo? E perché il suo autore, Reg Smythe, è stato definito «il più grande umorista inglese dopo Charles Dickens» ?

Una cosa è certa: nel mondo di Dickens e dei suoi personaggi accanto agli aspetti umoristici e divertenti c’è sempre, sicuramente, anche un bilanciamento di sentimenti positivi o nobili.

Nelle creature di Smythe no, in Andy non c’è mai traccia né di retorica dei sentimenti né di aspirazione a una qualche forma di nobiltà. Lui è lo “scorretto” per eccellenza, l’irriverente per vocazione. «Perché allora – ha annotato D. P. McGeachy in Il Vangelo secondo Andy Capp ( Editoriale Corno, 1976), il primo saggio critico dedicato al nostro personaggio – me la rido di gusto? E, soprattutto, cosa c’è che mi piace di Andy Capp? Be’, mi piace non perché è quello che vorrei essere, ma perché ( horribile dictu!) è quello che sono. E non c’è conforto maggiore per un peccatore che quello di sapere di non essere solo» . «Sì, è proprio così, Andy Capp – ha spiegato lo scrittore italiano Antonio Pennacchi, il quale anche esteticamente si è personalmente ispirato al nostro personaggio – non vuole apparire diverso da come è. Lui mette al bando dal suo linguaggio e dai suoi comportamenti qualsiasi ipocrisia e qualsiasi retorica. È un finto burbero ma ha un cuore d’oro, un po’ come l’Accio Benassi del mio romanzo Il fasciocomunista.

Per vent’anni io stesso mi sono ispirato a lui, ho portato il suo stesso cappello, poi l’ho cambiato con uno a tesa larga ma gli resto fedele come a un vecchio amico». Già, come non immedesimarsi in lui?

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Anche il grande e compianto Gianni Brera aveva confessato in tempi non sospetti la sua passione: «L’osteria di Andy è il britannico pub: a volte vi figurano panche, altre volte sgabelli simili a trespoli per una più ardua ascesi alcolica. Il vino è assente come genere di lusso, comunemente riservato ai ricchi. Il contrasto tra pub e osteria implica le solite discrepanze fra il procelloso Nord e il solare Mediterraneo. Ma come va – si domandava Brera – che Andy si comporta alla stregua di qualsiasi omarino colto in fallo e puntualmente individuato a Cadice o a Smirne, in Quebec del Canada o a Turku in Finlandia?».

Del resto, Andy e sua moglie Forrie, detta Flo, potrebbero essere considerati gli abitanti idealtipici di qualsiasi provincia o periferia del mondo. Due personaggi che amano e si interessano soprattutto alla ripetitività della propria quotidianità: la birra, le partite a freccette o a biliardo al pub, quelle a calcio, le scommesse, il poltrire, le discussioni tra marito e moglie, il matterello di Flo, la spesa, il marito traditore, le bollette da pagare. D’altronde, proprio come Andy, Reginald Smyth, viveva a Hartlepool, una cittadina di 90mila abitanti situata nel Nord- ovest della Gran Bretagna, a cinquanta chilometri da Newcastle.

Reg studia fino alle scuole medie e poi cerca di sbarcare il lunario come garzone di macellaio. Poi, nel ’ 36, entra nell’esercito dove è impiegato come fuciliere per tutta la seconda guerra mondiale. Dopo il ’ 45, Smyth diventa un funzionario pubblico, lavorando come impiegato in un ufficio postale. E nel tempo libero inizia a disegnare manifesti e a spedire vignette umoristiche a riviste.

Comincia a firmarsi come Reg Smythe e nel 1954 entra nello staff del Daily Mirror, ricevendo l’incarico di disegnare la vignetta quotidiana della sezione “Laughter at Work” (“risate sul posto di lavoro”). Tre anni dopo, il caporedattore Hugh Cudlipp, nel tentativo di aumentare la tiratura del quotidiano nel Nord della Gran Bretagna, gli commissiona una striscia umoristica basata sulla sua esperienza in quelle zone, che potesse rappresentare quei precisi lettori. E così, il 5 agosto del ’ 57, debutta la prima striscia di Andy Capp. Il successo è così travolgente che, nel giro di un anno, le vignette di Andy iniziano a comparire anche sull’edizione nazionale del giornale.

Nel 1960, divenuto una vera e propria striscia a fuca metti, Andy Capp viene ospitato sul Sunday Pictorial ( il futuro Sunday Mirror) e, in una decina d’anni, si afferma in oltre 1700 quotidiani di tutto il mondo, raggiungendo 250 milioni di lettori di diciassette lingue diverse. Da noi La Settimana Enigmistiusato ribattezzò la striscia in “Le vicende di Carlo e Alice”, in Svezia Andy Capp divenne Tuffa Victor, in Olanda Jan Met de Pet… Con l’inizio degli anni Sessanta, Andy assurge a icona britannica doc. Tanto che inizia a essere anche come testimonial pubblicitario, tra i tanti di una nota marca di birra.

La striscia vince poi il Best British Cartoon Award per cinque anni consecutivi ( dal 1961 al 1965) e viene votata come migliore strip dall’associazione americana dei cartoonist. Nel ’ 63, infatti, la coppia Andy- Flo sbarca negli States – sul Chicago Sun Tribune – così come, per tornare a noi, dal 1967 anche sulla prestigiosa rivista Eureka della editoriale Corno diretta da Luciano Secchi- Max Bunker. Qui Andy Capp – chiamato col suo vero nome e non più come Carlo – diventa il simbolo stesso dello storico mensile italiano di fumetti: dal 1967 all’ 86 è stato per Eureka ciò che i Peanuts e Snoopy erano per la rivista Linus di Oreste del Buono.

La Corno, inoltre, dedicò al personaggio una serie di volumi cartonati – tra cui Il diario inedito di Andy Capp, del 1976, in cui comparvero alcune rare strisce a colori – mentre Mondadori, nel ’ 78, lo ha celebrato con uno degli Oscar intitolato Andy Capp: Hurrah. Negli anni Ottanta Andy conoscerà una nuova stagione di popolarità, tanto da diventare personaggio televisivo e ispirare uno spettacolo musicale itinerante che da Manchester arriverà sino in Finlandia. La filosofia di vita di Andy Capp finisce quindi per esondare e influenzare anche il panorama musicale: numerosi gli aneddoti di calcio, birra, sigarette e scorribande nei testi delle band “britpop” come Oa- sis, The Verve, Blur e Radiohead. Andy, infine, da tempo è – insieme a Mr Magoo e Mister Enrich – uno dei simboli scelti dalle tifoserie senza distinzione di fede quale segno di identificazione.

La sua passione genuina quanto sfegatata per il calcio fa sì che il suo nome e il suo profilo siano spesso presenti su stendardi e striscioni issati nelle curve europee. Il personaggio di Smythe è infatti diventato fumetto- simbolo e patrimonio simbolico di quel calcio romantico che piace a chi affolla i settori popolari degli stadi ed è diffidente rispetto al neo- calcio tutto business e diritti televisivi. Ma forse anche per questa sua popolarità tra ultras e tifosi, Valerio Marchi, un sociologo scomparso prematuramente nel 2006, aveva dedicato al nostro un libro forse eccessivo: La sindrome di Andy Capp ( Nda press, 2004).

Pur non essendo un campione di “politicamente corretto”, Andy Capp non può infatti essere troppo schematicamente assunto «ad allarmante modello di una sindrome paranoide collettiva dei giovani marginali per lo stile di vita aggressivo, maschilista, sciovinista, qualunquista, tendenzialmente xenofobo, cosmicamente alieno da ogni forma di acculturazione». Semmai, noi concluderemmo che lui – ripetendo il titolo di uno dei libri delle Edizioni Corno a lui dedicati – potrebbe essere considerato «l’olimpionico della contestazione», tenendo presente il suo spontaneo ribellismo esistenziale, mai riducibile a inquadramenti o forme di militanza. Andy Capp rappresenta infatti una forma di ribellione tutta individualistica e libertaria, senza dialettica e senza velleità ideologiche. Non c’è mai in lui né rabbia né frustrazione né volontà di rivalsa. Della società se ne frega e ne è ricambiato felicemente. «Io so come vanno le cose, è solo che non ci capisco niente», ci spiega una volta per tutte in una sua celebre vignetta.