Napoli e Totò, un rapporto ancestrale, passionale, sincero che ha legato il Principe De Curtis alla città in modo indissolubile quando era in vita, fino a fargli dire «sto morendo, portatemi a Napoli» e oggi, a cinquant’anni dalla morte ne ha fatto un mito partenopeo come San Gennaro e Pulcinella. Il suo essere fisico e metafisico, in perenne bilico tra l’allegria e la tristezza ne hanno fatto un’icona nella quale si riconoscono tutti: il sottoproletario, l’aristocratico, il borghese. Marino Niola, professore di Antropologia dei simboli all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, collaboratore di Repubblica ( ha una rubrica settimanale sul Venerdì), del Nouvel Observateur e di altre testate straniere, da studioso e da napoletano ha analizzato a fondo il rapporto tra Totò e i napoletani.

Professor Niola, ci spiega questo legame così profondo?

Totò è stata una grande maschera di Napoli. Una maschera interclassista nella quale ognuno poteva e può riconoscersi. Ciascuno ci trova una parte di se, e spesso è quella parte che non quadra troppo. Il suo personaggio era sghembo come il suo corpo. La sua faccia era un “qui pro quo”, esattamente come il suo “qui pro quo” linguistico. Questo spiega la facile riconoscibilità per cui ciascuno trova qualcosa che lo riconduce al proprio intimo e in cui si identifica. Anche questo è tipico di Napoli, perché è una città di “qui pro quo”, di segni a forte definizione in cui ci si riconosce subito, ma che è difficile conoscere.

Quanto ha dato Napoli a Totò e quanto Totò a Napoli?

La città gli ha dato sicuramente l’humus culturale, umano, affettivo, sentimentale da cui poi nasce la sua comicità. E lui ha restituito alla città sempre, in un modo o nell’altro, nei suoi film, nelle sue poesie, nelle canzoni questo affetto per Napoli. C’era un feedback continuo. Nel suo rapporto con Napoli non c’era quella rabbia di Eduardo che lo rendeva antipatico a molti napoletani. Parliamo di due icone, ma tra loro c’è questa enorme differenza: Eduardo era più una icona borghese, mentre Totò era interclassista. Totò non voleva insegnare niente a nessuno, Eduardo dava continue lezioni.

La folla immensa di piazza del Carmine per l’ultimo saluto a Totò in questi cinquant’anni è aumentata ed è un amore che si alimenta quotidianamente.

Perché di Totò, come per tutte le grandi icone dello spettacolo moderno, è rimasto il suo corpo immateriale. I suoi film passano continuamente in tantissime tv in tutt’Italia. Questo fa sì che anche le persone giovani, le quali quando Totò è morto non erano neanche in mente dei, ricordino le sue battute. Senza contare il merito incredibile di essere riuscito a rendere famoso nel mondo un posto, che altrimenti sarebbe rimasto sconosciuto ai più, come Cuneo.

L’arte di arrangiarsi, spesso geniale, è una delle caratteristiche dei personaggi di Totò che ritroviamo da sempre a Napoli.

Anche in questo c’è un rispecchiamento: Totò nasce povero e si arrangia continuamente nella vita e nei suoi film torna questo personaggio che non ha mai dimenticato la fame. Tante è vero che l’elemento dell’indigenza è presente in molte scene, nelle quali sogna in modo semplice, da persona del popolo, un alimento per nulla sofisticato: lo sfilatino. L’aspetto, quindi, dell’arrangiarsi, del sotterfugio, del piccolo imbroglio è presente, ma i suoi personaggi non sono mai delle carogne. Utilizza degli espedienti perché gli servono per sopravvivere, per pagare la scuola alla figlia ad esempio. Si tratta di motivi nobili che ne fanno un povero cristo, mai il delinquente. Ha rappresentato in pieno il tipo umano che usciva dalla guerra: povero, pieno di voglia di vita, irriverente e disincantato quanto basta, che dava alle cose il giusto valore. E infatti da questo atteggiamento ne deriva una continua lezione di saggezza.

Totò e il cibo è un altro dei connubi della sua maschera. La scena degli spaghetti di Miseria e nobiltà è diventata un’icona di moltissime trattorie in ogni parte del mondo. Come lo spiega?

È la fame atavica del popolo. Totò diventa il paradigma, il simbolo del rapporto tra il popolo e la fame. E il cibo è proprio questo e lui è una grande maschera, proprio come Pulcinella che tradizionalmente non fa altro che sognare montagne di maccheroni. Consideriamo anche che molti dei film sono stati girati tra la fine della guerra e il ’ 57-’ 58, anni decisivi in cui l’Italia comincia a voltare pagina, si lascia alle spalle la fame ed entra nel miracolo economico, ma il ricordo della fame è ben presente.

Pulcinella, Totò, Troisi, Maradona, Pino Daniele: perché Napoli ha bisogno di avere delle figure di riferimento, direi quasi dei miti?

Intanto direi che tutti avrebbero bisogno di queste figure, ma non lo sanno, Napoli è una città che non ha dimenticato come il mito sia un alimento dell’immaginario che aiuta a ricostruire continuamente l’identità. Basti pensare che i napoletani si chiamano ancora con il nome della fondatrice mitica: la sirena Partenope. Il che vuol dire che il mito è nel cuore e negli occhi e queste figure rappresentano la collettività. Dopo la sirena Partenope è arrivato San Gennaro, poi Masaniello, fino a Maradona che incarnava l’uno e l’altro: un po’ Masaniello e un po’ San Gennaro, un difensore della città e un simbolo della Napoli che vince e che può fare miracoli. Non a caso nel film “Così parlò Bellavista” di Luciano De Crescenzo il poeta paragona una finta di Maradona allo scioglimento del sangue di San Gennaro.

L’arte di Totò è paragonabile a quella di Chaplin, Groucho Marx o è assoluta e inimitabile?

Ciascuno di loro ha una cifra inimitabile, però ce li ricordiamo tutti. Sul piano dell’arte Totò è grande quanto gli altri e se avesse avuto alle spalle lo star system americano si parlerebbe di lui allo stesso livello di Chaplin, di Buster Keaton e degli altri grandi comici Usa. Il fatto che sia partito da una cinematografia come quella italiana, soprattutto da una cinematografia minore, e sia arrivato a essere il simbolo vuol dire che parliamo di un campione assoluto.

Come mai il suo linguaggio, i suoi modi di dire sono entrati nel parlare comune e spesso risolvono con una battuta imbarazzi, sentimenti e stati d’animo?

Totò non chiedeva troppo per essere capito, la sua battuta faceva capire che lui ti aveva capito, c’era una perfetta sintonia. Ci si può calare in quella battuta come in un vestito che veste alla perfezione e diventa della persona, interpretandone il sentimento. Non a caso alcune battute come “siamo uomini o caporali”, “ma mi faccia il piacere”, “ogni limite ha una pazienza” sono diventati modi di dire comuni della lingua italiana.

Il titolo del suo ultimo libro Il presente in poche parole rimanda a un modo di dire alla Totò… “Ho detto tutto”, ripetuto ossessivamente con Peppino De Filippo in Totò, Peppino e la malafemmina…

Lei, nei suoi libri, analizza la credulità popolari, le manie, le perversioni legate al cibo e alla cucina: sa-

rebbe stata un’occasione ghiottissima per la comicità di Totò?

Assolutamente sì. Sulle diete, ad esempio, cominciava già a giocarci. Faceva spesso battute sulla linea, sul dimagrimento. Anche se lui esalta sempre la donna in carne, la maggiorata, la donna che a Napoli si chiama “ciaciona”, come nel film “Signori si nasce” quando bacia il seno di una procace e giovane Angela Luce, o quando chiede a Sophia Loren in “Miseria e nobiltà” di essere accolto nel suo seno. In lui persino le donne sono quasi da mangiare. Anche in questo è come Pulcinella: il cibo e il sesso sono due facce dello stesso desiderio.

Totò e le donne: un altro rapporto molto stretto.

Strettissimo. La sua vita è punteggiata da donne decisive. E Napoli è assolutamente donna.

I personaggi di Totò sono spesso irriverenti, non politically correct, forse è per questo che arrivano alla gente. Affronta anche temi scomodi: le case chiuse, il regime nazifascista, la morte e interpreta ancora una volta il sentimento popolare e risolve con uno sberleffo o una battuta che rimarrà per sempre nella mente. È questa la sua forza?

Arrivano alla gente perché Totò in alcune cose non è stato costretto a censurarsi, mentre gli argomenti scomodi li ha affrontati con garbo.

Quando non poteva affrontarli esplicitamente li risolveva, come in “Totò e i re di Roma”, con un “poi dice che uno si butta a sinistra…”.

Si è salvato dall’onda del politicamente corretto e da questa forma di stupidità profonda che si annida nel politicamente corretto, risolvendo con uno sberleffo situazione pesanti e complicate. Dimostrando che non c’è bisogno di esasperare certe situazioni, ma che in certi momenti una battuta dà a tutti una via di uscita.

In occasione dei cinquant’anni della sua morte il mondo del cinema lo sta ricordando adeguatamente?

Gli sta in parte restituendo, in ritardo, quello che gli ha tolto quando era vivo. Non dimentichiamo che molti dei lodatori attuali di Totò, come campione della comicità popolare, sono gli stessi che in quegli anni dicevano delle baggianate spaventose suoi sui film, figlie di una critica occhiuta e ideologica.

C’è qualche erede di Totò?

No. No. No. Una sarebbe potuto essere Massimo Troisi che fondeva in se qualche aspetto di Totò e qualche altro di Eduardo. Più di Totò che di Eduardo, ma era un Totò generazionale che ne aveva quindi una parte. Oggi non vedo eredi.