Scriveva Valerio Massimo nel libro sesto della sua opera Factorum et dictorum memorabiulium libri: «Non c'è uomo libero che non possieda almeno uno schiavo, compagno della sua vita, a meno che non sia piombato nella miseria». Sulla presenza pervasiva degli schiavi in tutti i comparti sociali e produttivi dell'antica Roma e sui raccordi fra le condizioni servili di ieri e di oggi si incentra la mostra Spartaco. Schiavi e padroni a Roma, ospitata fino al 17 settembre presso il Museo dell'Ara Pacis della Città capitolina. Costituita da 250 reperti – provenienti da cinque musei della Sovrintendenza Capitolina, oltre che da altri poli museali italiani e stranieri – e ideata da Claudio Parisi Presicce e Orietta Rossini, la rassegna scandisce un percorso di voci e immagini, proiezioni e ambientazioni, al fine di restituire intatta la complessità della dimensione servile nella Roma imperiale, che rappresentava circa il 10% della popolazione, per raggiungere nelle grandi realtà urbane il 30%.

Emblema del riscatto degli schiavi, il trace Spartaco capeggiò la celebre sollevazione occorsa tra il 73 e il 71 a.C. e partita dalla scuola dei gladiatori di Capua. Figura divisiva, specie nella narrazione dell'epoca: mentre nel 44 a.C. Cicerone, scagliandosi contro Marco Antonio, lo definiva  «un sicario, un ladrone, uno Spartaco!», Sallustio considerava il gladiatore «uomo notevole per doti fisiche e morali». La storia ci consegna l'esito sanguinoso della rivolta: dopo tre anni in cui tenne testa alle legioni romane, l'esercito di rivoltosi – composto non solo da gladiatori ma anche da poveri e disperati – dovette soccombere di fronte alle forze di Licinio Crasso. Appiano scrisse che Spartaco cadde combattendo «come un generale romano», mentre 6.000 dei suoi compagni d'arme sopravvissuti all'ultima battaglia vennero crocefissi lungo la via Appia, da Roma a Capua.

 

La sconfitta di Spartaco sancì il definitivo consolidamento della manodopera servile, che contribuì in maniera decisiva all'economia romana: senza di essa non si sarebbe sviluppato il latifondo a coltura intensiva, l'industria tessile, le fabbriche di laterizi e le imprese estrattive di cava e di miniera, così come notevole impulso conobbe anche il settore dell'intrattenimento (schiavi erano infatti gladiatori, aurighi e attori).

Le undici sezioni della mostra – realizzate di concerto da un team di archeologi, scenografi, registi e architetti – dimostrano quanto radicata fosse l'incidenza degli schiavi nel tessuto sociale del tempo – i più meritevoli dei quali potevano, arricchendosi, comprare la propria libertà, come concesso dal diritto romano attraverso la manumissio – ma testimoniano anche la sopravvivenza della pratica della schiavitù fino a tempi molto più recenti, come denunciato dalle fotografie esposte e dai contributi forniti dalla Organizzazione Internazionale del Lavoro [ILO], Agenzia Specializzata delle Nazioni Unite impegnata nell'eliminazione del lavoro forzato e di altre forme di schiavitù dagli attuali contesti lavorativi.

Secondo le stime ufficiali, sono circa 21 milioni gli esseri umani che, ancora oggi, possono definirsi vittime della new slavery. Lo sguardo di un bambino sfruttato nel 1916 in un campo di cotone americano custodisce, nell'ocra smorto di uno scatto d'epoca, l'eco di un discorso mai interrotto.