La prima a notarlo, in tempi non sospetti, fu la House of Lords calcolando che in media per un trattato, o anche per un accordo commerciale nel Regno Unito, servono 4 anni, ma si arriva a punte di 9. Una statistica per quel che riguarda l’Unione Europea non è invece stata fatta, ma è nelle cose che il proposito di Bruxelles di concludere le trattative per la Brexit entro un anno e mezzo sia la prima e la più dura delle mosse negoziali: meno dei due anni previsti dall’articolo 50 del trattato, attivato dalla lettera della premier Theresa May a Donald Tusk, e che scadono il 29 marzo 2019.

Ma il fatto è che quell’articolo 50 innesca non la decisione ma l’intenzione di uscire dall’Unione, e per un tempo di negoziato quantificato sì in 2 anni, ma rinnovabili. In quel «salto in una terra incognita» che è la Brexit secondo il titolo del Monde, un lasso di tempo così ampio e una materia così inesplorata e complessa lasciano in campo anche un’ipotesi: le intenzioni sono revocabili, e in 2- 4 anni può accadere veramente di tutto... Il primo a notarlo, all’indomani dell’esito del referendum leave or remain che fu sconsideratamente indetto da David Cameron, e anche recentemente, fu non a caso Giuliano Amato, giudice costituzionale che ai tempi della Convenzione fu anche il politico italiano che tenne in mano la penna con cui fu scritta la Costituzione europea, che poi dopo l’esito negativo dei referendum francese ed olandese si dovette far confluire nel Trattato di Lisbona ( al quale appartiene proprio l’articolo 50 attivato da Theresa May).

I motivi per i quali Brexit non è ancora scritta a lettere di fuoco sul marmo non sono pochi. Il governo inglese si è visto comunicare a stretto giro, e nonostante la contrarietà esplicita di Downing Street, la decisione della Scozia di indire un secondo referendum sull’indipendenza. Il primo era stato perso dalla premier di Edimburgo Nicola Sturgeon, che si era poi però vista lievitare i seggi a Wenstminister nelle politiche del 2015, lasciando esangui sul campo i laburisti di Ed Miliband: la premier di Edimburgo non solo vorrebbe lasciare Londra per poi avviare un negoziato per entrare nell’Unione, ma a lungo termine punta a far parte dell’Eurozona ( uno dei fallimenti di Tony Blair, che se avesse tolto dalle tasche degli inglesi la sterlina mettendoci l’euro oggi probabilmente sarebbe sulla poltrona di Tusk, se non su quella di Juncker). L’Irlanda del Nord non si è ancora mossa in tal senso, ma non ha fatto mancare avvisaglie: una tenaglia, per il debole governo tory di Londra, assediato da una opinione pubblica di molti leave pentiti che han manifestato pro-Ue anche il giorno dei sessant’anni dell’Europa a Roma.

Sul fronte europeo le cose non van meglio. Bruxelles ha allontanato ogni velleità di Londra di puntare ad accordi commerciali bilaterali con i vari mercati nazionali da cui la Gran Bretagna è dipendente per le sue esportazioni compattandosi: incredibilmente, i 27 hanno puntato sull’unità, e delegato la trattativa al francese Michel Barnier, ex ministro ed ex commissario Ue che al momento della nomina a negoziatore era parcheggiato a monitorare presso il Servizio estero guidato da Federica Mogherini i rapporti con le industrie europee del settore difesa. Barnier è un duro che ha già fatto sapere che prima di entrare nel vivo dei negoziati Londra deve applicare la Convenzione di Vienna e garantire i quasi 4 milioni e mezzo di cittadini Ue ( gli italiani sono mezzo milione) che vivono e lavorano in Gran Bretagna. La Ue, naturalmente, farà altrettanto con i sudditi di Sua Maestà. Ci si aspettava che Londra desse unilateralmente garanzie in questo senso prima di inviare la lettera di attivazione della Brexit. Siccome non è accaduto, Barnier si è premurato di far sapere a mezzo stampa che la Brexit comunque non esonererà la Gran Bretagna dal far fronte agli impegni già presi: valgono fino al 2023, è il totale ammonta a circa 60 miliardi di euro.

Naturalmente, tanta durezza degli europei non trova ragione solo nel carattere di Barnier e nel fatto che si tratta di un francese ( la Storia non è acqua, nel rapporto tra nazioni...), quanto nel fatto che la presenza di Londra nell’Unione è sempre condizionante ed è sempre stata fatta molto pesare, dall’ostilità a una politica di coesione europea sempre più stretta ai vincoli nella politica di immigrazione, al sostanziale no all’incremento della legislazione comunitaria. Le cose erano, se possibile, anche peggiorate con l’avvento del premier tory David Cameron, che oltretutto chiedeva prima di ogni Consiglio europeo un vertice ristretto per esaminare i desiderata inglesi. Insomma, come ebbe a dire una volta Giulio Tremonti, che pure è un europeista malgré soi, «i britannici si comportano con l’Europa come con il Papa all’inizio del Cinquecento», ovvero avanzando continuamente richieste di concessioni.

Per quanto realmente addolorati della dipartita britannica, gli europei sanno che senza Londra non avranno più alibi nell’avanzamento dell’Unione, e nella revisione dei Trattati. Ma la trattativa con Londra che aspira allo status della Norvegia - e cioè a mantenere il libero scambio con l’Europa, del quale però sono parte integrante anche le regole Ue sull’immigrazione, proprio quelle che hanno “provocato” Brexit - è, come si sa, lunga e complessa. Una terra incognita, in cui ciascuna delle parti si muoverà misurando le proprie perdite e vantaggi. Sempre che, appunto, le condizioni politiche interne e le condizioni della Ue non spingano la Gran Bretagna a fermare il processo. Com’è sempre possibile, e i protagonisti lo sanno bene. Theresa May lo ripete spesso, Brexit is Brexit ma «meglio nessuna Brexit che una Brexit svantaggiosa». E Michel Barnier è stato chiaro: «che non si riesca a raggiungere nessun accordo è una possibilità concreta». Lo scenario C, il più improbabile, è da fine- dimondo: Londra che esce dalla Ue senza nessun accordo, stracciando l’articolo 50. Ma questo sarebbe un tale caos che ci penserebbero i mercati a punire quello che era la principale piazza finanziaria d’Europa. Come diceva Goethe, il primo passo è una libera scelta, è al secondo che siamo tutti obbligati.