Certo, le ambizioni di Geert Wilders e del suo partito della libertà ( Pvv) si sono decisamente sgonfiate, l’ondata populista che secondo alcuni avrebbe travolto anche la “civile” Olanda, inaugurando il pauroso domino elettorale del 2017 ( si vota anche in Francia e Germania) non c’è stata, infrangendosi nelle urne e nell’altissima affluenza ( 81%) che hanno registrato le elezioni legislative. Un populista lontano dalla gente e punito dal popolo, Gert Wilders, che però è anche un politico sui generis: islamofobo e anti- europeo, liberista e occidentalista, diverso dalla tradizione della destra sovranista e sociale incarnata dal Fn di Marine Le Pen ma anche dal neo protezionismo del milionario Donald Trump. La sua dinamica e la sua parabola sono legate senz’altro dell’ascesa dei partiti anti- establishment in Occidente, ma rimangono figlie della realtà politica olandese.

Il dato più eloquente del voto non è quindi la battuta d’arresto del Pvv che comunque rimane il secondo partito ( 13%) e cresce di 5 seggi rispetto al 2012, ma la polverizzazione dei socialdemocratici del Pvda che passano dal 26% al 5% dei consensi e da 38 a 9 deputati, elemento sottolineato un po’ troppo en passant da gran parte dei media che invece si so- no concentrati sulla «disfatta» di Wilders e sullo «scampato pericolo» per l’intera Unione europea. Un fenomeno che negli ultimi anni ha falcidiato i laburisti irlandesi e il Pasok greco, un tempo forze di governo oltre il 20%, oggi partitini in disgrazia relegati nella nicchia del 5%. L’abbraccio con il dogmatismo pro- austerity è stato fatale.

Ad uscire davvero sconfitta è infatti la coalizione di governo uscente e la sua linea di rigore economico mutuata pedissequamente dalla vicina Germania della cancelliera Merkel, grande coalizione compresa. Non bisogna dimenticare che il Pvda è il partito di Jeroen Dijsselbloem, presidente dell’Eurogruppo e ministro delle Finanze, tra i più dogmatici sostenitori dell’ortodossia monetaria e del pareggio di bilancio; in tal senso farebbe bene a moderare l’entusiasmo anche il premier Mark Rutte, il “vincitore” delle elezioni.

La sua destra liberale ( Vvd) perde cinque punti percentuali e otto seggi rispetto alle precedenti legislative e la sua coalizione non esiste semplicemente più ( 25 punti percentuale in meno), rasa al suolo dagli elettori che hanno rispedito al mittente cinque anni di austerity con un messaggio che più chiaro non poteva essere. La disoccupazione, seppur inferiore alla media comunitaria, è tornata ai livelli del 2012 ( 6,5%), la povertà è lievitata intorno a un tasso di crescita gonfiata solo dai vantaggi fiscali concessi alle grandi imprese, mentre il lavoro part- time ha toccato il record storico. Basta incrociare le cifre per capire che i “fantasmi culturali” dell’islam e dell’immigra-zione selvaggia sono preoccupazioni minori per gli olandesi i quali si attendono una svolta nelle politiche economiche e sociali. Ad approfittare del crollo socialdemocratico sono stati i verdi progressisti ed europeisti di GroenLinks ( GL) guidati dal giovane Jesse Kalver già incoronato dalla stampa come “astro nascente” della politica olandese che passano dal 2% al 9%. Con 14 seggi ( uno perso) i socialisti euroscettici del Sp confermano il 9% del 2012 ma rimangono ai margini delle possibili alleanze che si giocheranno tra il Vvd, i verdi, i cristiano democratici ( Cda), terzo partito con il 12%, 5 e i liberali di centrosinistra del D66 ( 12%).