Non si aspettava che il Senato bocciasse la richiesta di decadenza da senatore, Augusto Minzolini. Invece l’aula di Palazzo Madama ha approvato con 137 voti a favore l’ordine del giorno presentato da Forza Italia, che chiedeva di respingere la delibera favorevole della Giunta. Un voto che lo salva, «anche se io mi dimetterò comunque, perchè la mia è stata una battaglia di principio». Senatore, è stato proprio così inaspettato questo voto? C’è già chi parla di complotti... Io non me lo aspettavo assolutamente. Ho sentito questi discorsi di fantomatici patti sottoscritti, ma mi permetta di definirli una banalità bella e buona. I senatori si sono espressi con voto palese, quindi chiunque ha deciso di votare in mio favore ci ha messo la faccia e se ne è assunto la piena responsabilità. E quindi perché la scelta di dimettersi comunque? Perché ho voluto sterilizzare la questione dai miei interessi personali. Ho sentito dire che la mia non è stata una battaglia di principio ma per salvarmi la pensione. Allora voglio sgomberare il campo da dubbi, l’ho detto prima e lo ribadisco: mi sarei dimesso a prescindere dal risultato del voto. Anche perché guardi, io non sono un politico di professione, prima di entrare in Senato ho fatto altro e mi piacerebbe tornare a farlo. Eppure proprio la sua professione le è costata questa vicenda, che lei ha definito «kafkiana». Proviamo a spiegarla?

Molto semplice. Io da dipendente Rai dovevo rendere conto delle mie spese e per 18 mesi ho mandato un rendiconto dettagliato, che la direzione finanziaria dell’azienda mi ha pagato senza mai contestare nulla. Dopodiché, la stessa direzione ha sostenuto che c’era qualcosa che non andava. Sono rimasto un po’ perplesso, mi sono anche arrabbiato perché avrebbero potuto dirlo prima, ma ho restituito i soldi. Francamente credevo la che la vicenda finisse così, invece inizia il procedimento giudiziario a mio carico. In primo grado un giudice del Lavoro mi assolve e anzi ordina alla Rai di restituirmi la somma. In secondo grado, invece, arriva un giudice tornato in ruolo dopo vent’anni in politica e mi condanna a 2 anni e 6 mesi, aumentando la pena rispetto alla richiesta dell’accusa, in modo da innescare la legge Severino. Se non è kafkiano questo...

Il punto, quindi, è chi l’ha giudicata?

Rilevo i fatti: il giudice che mi ha giudicato ha fatto politica in uno schieramento avverso al mio per vent’anni, poi negli ultimi 4 anni è stato consigliere giuridico all’ambasciata italiana di Washington. Ecco, questo giudice ribalta la sentenza di assoluzione di primo grado, senza nemmeno riaprire l’istruttoria e ascoltarmi. Questa a me sembra la vicenda centrale e paradossale, emarginata nel dibattito ma rimarcata anche da Vito Crimi, del Movimento 5 Stelle.

In altre parole, un giudice che ha fatto politica non deve poter tornare a giudicare?

Lo chiedo io all’opinione pubblica, con la mia testimonianza: può un giudice che ha fatto politica per vent’anni tornare in magistratura e giudicare un suo avversario? Dove finisce la terzietà e l’imparzialità del giudice? Non lo dico solo io: anche giudici considerati “rigidi” come Cantone, Davigo e Di Pietro hanno ribadito che non è accettabile per un giudice che fa politica tornare a indossare la toga. Anche perchè a rimetterci dal punto di vista dell’immagine sono gli stessi magistrati.

Il Parlamento dovrebbe approvare una legge che lo vieta?

Ricordo che il Senato ha approvato una legge che avrebbe impedito a quel giudice di far parte del tribunale che mi ha giudicato, ma il testo è fermo da tre anni alla Camera. Si tratta di un problema enorme, sul quale è intervenuta anche la Corte europea e che diventa tanto maggiore in quanto esiste una legge come la Severino.

Ma che cosa ha a che fare la legge Severino con i giudici in politica?

Tutto, perchè è una legge che prevede una sanzione squisitamente politica come la decadenza. Ecco, è legittimo che un magistrato- politico può decidere una sanzione politica contro un suo avversario politico?

Una legge sbagliata, dunque?

Completamente sbagliata. Ma ne è sbagliata anche l’interpretazione, perché nel momento in cui secondo la legge il Senato deve esprimersi sulla decadenza, allora il Parlamento assume un ruolo giurisdizionale e non si può pesare che esista un automatismo che obbliga i senatori a ratificare la sentenza dei giudici. Il problema, però, è sostanziale: è necessario un organo che verifichi se una condanna abbia o meno una valenza politica.

Lei vede un rischio di sconfinamento del sistema giudiziario nelle prerogative di altri poteri dello Stato?

Io credo che l’autonomia della magistratura rispetto agli altri poteri sia più che giusta, ma anche che sia necessario affrontare un problema di fondo: in Italia i giudici non sono tenuti ad applicare la legge, ma a interpretarla. Questo dà loro un margine di discrezionalità enorme, che deve necessariamente avere un contrappeso. Altrimenti si rischia un atteggiamento arrogante dei giudici: del resto, che cosa altro sarebbe l’atteggiamento di un giudice che ha fatto politica per vent’anni e decide di giudicare comunque un avversario?

Ma secondo lei la magistratura si pone questo problema?

Rilevo che nella Prima Repubblica esisteva un patto di galateo istituzionale, che prevedeva l’astensione. Ricordo il caso di un ex senatore democristiano che, dopo Tangentopoli, si trovò a giudicare in aula il collega di partito Arnaldo Forlani e si astenne. Nel mio caso, invece, non c’è stata nemmeno questa scelta personale di opportunità.

La sua vicenda personale diventa emblematica, quindi?

La mia vicenda dimostra che il re è nudo. Rileggendola, tutte le supposizioni sulle reciproche interferenza tra politica e magistratura appaiono palesi, in una rappresentazione plastica.

Eppure Luigi di Maio ha definito quello in suo favore un «voto eversivo contro le istituzioni»...

Di Maio non sa quello che dice. Prima si studi la mia vicenda, poi ne parli: io su questo tema posso tranquillamente affrontare un dibattito pubblico con Di Maio e Di Battista.

E’ una sfida?

Quando vogliono, per me si può fare. Vorrei però fare una domanda a Di Maio che si indigna tanto: ma se per caso Anna Finocchiaro tornasse in magistratura e si trovasse a giudicarlo, lui lo troverebbe giusto?