L‘interrogativo è se i Cinquestelle hanno ormai imposto una loro egemonia sulla politica italiana e di conseguenza se gli altri partiti si sono rassegnati a subire una resa culturale. Il tema l’ha solelvato Angelo Panebianco sul Corriere della Sera e in tanti si sono affrettati a rilanciarlo. Macché egemonia: i grillini vandalizzano ciò che i partiti tradizionali abbandonano

Va bene: diciamo che è un tema che al massimo può interessare un nugolo di iniziati, e la chiudiamo così. Poi però succede come al protagonista del film di Paolo Virzì: c’è quell’” ovosodo” che ti si pianta in gola e non va nè su nè giù, «ma che fa compagnia come un vecchio amico». Infatti. Perché la questione in realtà è tanto abusata quanto decisiva e anche il Lingotto di Matteo Renzi ne sarà ( o dovrebbe esserne) pervaso. Come pure i MacDonald dove Berlsuconi consuma le spremute. In soldoni l’interrogativo è se i Cinquestelle hanno ormai imposto una loro egemonia sulla politica italiana e di conseguenza se gli altri partiti si sono rassegnati a subire una resa culturale nei riguardi delle parole d’ordine del MoVimento di Beppe Grillo. Il tema l’ha solelvato Angelo Panebianco sul Corriere della Sera e in tanti si sono affrettati a rilanciarlo.

A dispetto di quanto può apparire, si tratta di una disquisizione tutt’altro che priva di significato e nient’affatto oziosa. Il grillismo inteso come rifiuto totale della democrazia mediata dai partiti e la ricerca di una palingenesi azzerante attraverso l’uso della Rete si è insinuato nei corpi vitali della società e il modo come viene rilanciato dai media sempre più contraddistingue il dibattito politico, orientandolo o addirittura condizionandolo. Se sia un bene o un male; se si tratti di un fenomeno duraturo o contingente; se rappresenti la ricetta giusta per sanare le storiche storture italiane, toccherà agli elettori deciderlo. Per come, finora, stanno andando le cose, non sembra: anzi. Pur se è indiscutibile che la presa dell’invettiva del Vaffa sull’elettorato appare per nulla transitoria.

Ma la questione dell’egemonia esiste, e va affrontata. Senza alcuna pretesa di esaustività e tanto meno di confronto con assai più strutturati analisti e/ o politologi, possiamo tentare di afferrare il nocciolo del problema. E rispondere che il concetto classico di egemonia - e le cose scritte da Antonio Gramsci sono e restano illuminanti - rimanda alla capacità di un gruppo, di una classe, di una porzione di società di esercitare una capacità direttiva, intellettuale e culturale sul resto della collettività. Rimanda cioè alla capacità di fare politica in senso lato: è la politica il mezzo con il quale quel composito segmento si amalgama e si impone. Nulla di tutto questo è rintracciabile nei Cinquestelle. La specificità di Grillo e di Casaleggio ( senior prima e junior ora) è operare in senso opposto: derubricare la politica come si esprime attraverso le rappresentanze classiche, senza curarsi di proporre un pensiero alternativo. Al massimo balbettando qualche concetto in maniera poco strutturata, tipo la decrescita felice; oppure cavalcando il non fare nel momento i grillini si ritrovano ad esercitare funzioni amministrative. Il caso di Roma è esemplare. Allora per comprendere al meglio il fenomeno forse bisogna rovesciare l’ottica. Il punto vero è che in politica non esistono vuoti: se qualcuno lascia sgombro uno spazio, immediatamente qualcun altro lo occupa. Con i Cinquestelle è questo il meccanismo che è scattato e sta funzionando a meraviglia. Le forze poltiche tradizionali, di destra e di sinistra, inghiottite da un vortice di autoreferenzialità che non accenna a diminuire, sempre meno esprimono destrezza progettuale; sempre meno sono capaci di lungimiranza prese dal gorgo dell’immediatezza comunicativa dei social; sempre meno appaiono in grado di raccontare la realtà e riassumerla in proposte organizzate lungo una filiera che delinei un disegno complessivo di governo. La caduta delle ideologie doveva dare sfogo ( e spazio, appunto) al consolidamento di ideali forti, in grado di appassionare e mobilitare l’opinione pubblica. Al contrario i partiti si sono chiusi in loro stessi preda dei giochi di nomenklatura o dell’adesione al capo carismatico: hanno cioè lasciato amplissimi vuoti davanti a loro che i grillini hanno occupato. A modo loro, naturalmente, con la cultura che sanno esprimere: la lotta al parlamentarismo, i ritmati ritornelli inneggianti all’onestà, l’opacità nella scelta della classe dirigente e nel dibattito interno, il giustizialismo cavalcato a proprio uso e consumo. Ma sempre con i decibel al massimo: è la strategia (!) del Vaffa, appunto, che tutto vince e travolge.

Non c’è egemonia nell’azione dei grillini. Semplicemente si limitano a vandalizzare il patrimonio ideale e politico che le altre formazioni e contenitori politici non custodiscono più. Vale sia per la berlusconiana rivoluzione liberale di massa, sia per la veltroniana contaminazione dei riformismi, sia per la dalemiana - ma non solo sua - volontà di ricostruzione della sinistra. Poiché quelle battaglie hanno prodotto risultati evanescenti, i leader e i partiti che ad esse si richiamavano hanno lanciato la ritirata, lasciando al massimo sul campo qualche bandierina segnaposto.

Immediatamente strappata e azzerata dalla tracimante furia pentastellata. Parimenti accade che una fetta cospicua di italiani li votino non tanto per quel che dicono quanto per ciò che non dicono: cioè sempre per lo spazio che lasciano. Non la stanca recita delle giaculatorie del Palazzo, assai spesso venate di retorica ipocrisia, quanto un linguaggio primitivo che taglia i concetti e punta tutto sulle emozioni. Quando Grillo invita i cittadini a votare non con la testa ma con la pancia esprime il massimo della sua capacità programmatica. Se fa così presa, è perché chi dovrebbe testimoniare l’esistenza in vita di un’alternativa non parolaia ma concreta e visibile, latita. tutto preso a pensare al proprio ombelico, al proprio cerchio di amicizie o alle proprie aziende.