Populisti e di sinistra? Spesso le due parole, almeno in Italia, paiono inconciliabili. La sinistra usa spesso la parola “populista” come sinonimo di “demagogo”. Non è così in Spagna, dove il più importante partito della sinistra radicale, Podemos, si autodefinisce con orgoglio “populista”, pur rimarcando la propria identità di sinistra. E la cosa è stata ribadita fra l’ 11 e il 12 febbraio, quando “Asamblea Ciudadana” e la rete ha eletto Pablo Iglesias segretario del primo partito “anti- establishment” dell’estrema sinistra con l’ 89% dei consensi, mentre il suo documento ha trionfato col 56% del voti contro il 33,7% di Íñigo Errejón, “numero due” in Podemos, e il 9% dell’ala più radicale, nettamente anticapitalista. Iglesias aveva dichiarato che in caso di sconfitta del suo documento politico si sarebbe dimesso dal ruolo di segretario. La sua vittoria sposta ulteriormente a sinistra Podemos.

La stampa iberica ha erroneamente parlato di una spaccatura in seno al movimento fra Iglesias e Errejón, il quale, però, non ha mai sfidato il segretario vincente candidandosi come suo avversario, ma ha presentato un documento differente, che si contrapponeva a quello vincente in relazione ai rapporti col Psoe, i socialisti, inizialmente sostenuti. La differenza fra i due era fra una concezione di partito “radicale” o “trasversale”. Per Errejón Podemos deve puntare ad una maggiore trasversalità, non soffermandosi su Izquierda Unida, con cui sono alleati, evitando di essere identificata dall’opinione pubblica come partito di sinistra, ma dialogando con tutti, Psoe in primis, per non allontanare potenziali elettori che non si collocano a sinistra e crescere così trasversalmente.

Secondo Iglesias invece, Podemos deve ritornare alle origini “movimentiste” e mantenere dell’alleanza con la sinistra di classe, come confermato dalla sua presenza, a differenza del M5S, nell’eurogruppo Gue/ Ngl, proponendo soluzioni sociali alla crisi spagnola. Per Iglesias, spiega il documento, Podemos deve tornare alla conflittualità, nella società spagnola, nelle lotte sociali, costruendo forme di mutualismo («Abbiamo un piede in Parlamento, ne dobbiamo avere un migliaio nella società»). Pablo Iglesias parla della possibilità di un dialogo coi socialisti, definendo però deplorevole l’alleanza con i popolari, che ha spostato il Psoe su posizioni centriste. Solo l’eventuale svolta a sinistra dei socialisti, alla quale sta già lavorando l’ex leader Sanchez, in vista del congresso di giugno, potrebbe portare Podemos a dialogare di nuovo con loro.

La definizione di “populismo di sinistra” ha acceso da tempo un dibattito nella sinistra europea. Se negli Usa Judith Butler ne parla come reazione a Donald J. Trump e per creare una «democrazia radicale» che dia voce agli “screditati”, un teorico come Ernesto Laclau che nel 2005 pubblica La ragione populista, un saggio che, attraverso Gramsci, rovescia la prospettiva dei più e spiega che il populismo fino a oggi non è solo stato degradato, è stato proprio denigrato, è stato condannato moralmente a esser appiattivo alle ragioni “della destra” per screditate le masse. Per Laclau esso è un metodo, non un’ideologia o una mentalità, che rende equivalenti posizioni politiche che non lo sono, e crea una polarità, una divisione che prima non esisteva, cioè fra “dominati” e “dominati”. Laclau avanza una interpretazione originale di Gramsci e dei suoi concetti di egemonia, di blocco storico e di guerra di posizione, per affermare una visione non essenzialista del “politico”. Non ci sarebbe per Laclau nessuna relazione diretta tra condizione sociale e posizione politica, ma la politica sarebbe il frutto di un’attività soggettiva di costruzione di un Noi da contrapporre a un Loro, grazie anche alla capacità di definire parole d’ordine che raccolgono e sintetizzano le tante rivendicazioni parziali che scaturiscono dai conflitti nella società.

Contro il “razzismo sociale” denunciato dallo scritto inglese Owens Johns, che in Chavs, the demonization of working class mostrava un’ostilità da parte di certi settori progressisti diretto non più contro i padroni, gli sfruttatori, i ricchi, ma contro i chavs, i “coatti”, gli sfruttati, la classe operaia, temuta o sbeffeggiata per la sua progressiva marginalità sociale e i suoi modi popolari, Laclau elogia il socialismo popolare – ripreso tra l’altro da leader come Iglesias o Jeremy Corbyn o da movimenti come Nuit Debout – che può consegnare lo strumento con il quale tracciare una divaricazione essenziale per la nascita di un populismo di sinistra credibile, assente nella scena italiana, non più radicale nelle posizioni e incapace di individuare l’avversario, non il “populismo” ( che è una causa), ma la crisi di sistema, e spesso contigua a certa sinistra liberale e capace di fare suoi, invece, il giustizialismo, specchietto per le allodole di una sinistra che strategicamente riproponeva la stessa logica della destra liberista. Venuto meno l’avversario di comodo, si scoperto con Renzi che ormai il re è nudo. E le masse vanno da tutt’altra parte.