In un’intervista al “Corriere della Sera”, giorni fa, Walter Veltroni osservava come in pochi anni la sinistra, in Occidente, ha disperso un enorme patrimonio. Governava quasi ovunque. Ora è ai margini, sbandata, sostituita dalla destra moderata o dai partiti radicali e populisti.

È proprio così. Veltroni, però, come molti altri leader che hanno guidato la sinistra negli ultimi vent’anni, non si chiede perché questo sia successo. Le ipotesi sono due: o è colpa del “destino cinico e baro” ( come diceva Giuseppe Saragat quando perdeva le elezioni) oppure degli errori compiuti dalla stessa sinistra. Sono propenso a dare più peso alla seconda ipotesi.

Mi pare che la sinistra, negli anni novanta, di fronte alla crisi e al crollo delle ideologie marxiste e socialdemocratiche che avevano dominato i cento anni precedenti, non abbia saputo trovare una sua via alla modernità. Ha scambiato per modernità e innovazione il semplice ripiegamento su posizioni classiche della destra. A partire dalla esaltazione del mercato e dal ridimensionamento dello Stato di diritto.

Oggi la questione si pone in maniera drammatica: i nuovi gruppi dirigenti della sinistra non sono riusciti a modificare e a mettere in discussione le posizioni precedenti, cioè non sono stati capaci di riflettere sui limiti del cosiddetto “blairismo”, e sono finiti in un vicolo cieco. È successo così in Spagna, in Gran Bretagna, in Francia, è successo anche, seppure in modo diverso, negli Stati Uniti, e ora sta succedendo in Italia.

La cosa curiosa è a mettere sotto accusa i nuovi gruppi dirigenti, qui da noi – e cioè a guidare la battaglia contro Matteo Renzi dopo la sua sconfitta al referendum – sono le stesse persone che avevano guidato il ripiegamento verso il centro e verso destra della vecchia sinistra italiana: D’Alema, Bersani, lo stesso Veltroni e altri ancora. I quali ora chiedono una svolta a sinistra del partito, quasi ignorando – credo in buonafede – di essere stati loro, e non Renzi, a guidarlo in fondo al vicolo.

La cosa che colpisce nella discussione che si sta sviluppando fu- riosa dentro il Pd, è l’assenza dei contenuti politici. Il fatto che esista un problema di definizione di quello che deve essere il giusto rapporto, in una società moderna, tra mercato e diritti, tra diritti e spesa pubblica e welfare, tra regole e profitti e salari, è un fatto del tutto ignorato. Il dibattito si svolge attorno a temi, sicuramente importanti, ma che non riesco a considerare cruciali, come la data del congresso, le modalità di svolgimento del voto, le caratteristiche delle eventuali primarie, la scadenza delle elezioni politiche, la legge elettorale, i capilista bloccati.

È su questi nodi che la sinistra ha subìto, in tutto il mondo, una clamorosa battuta d’arresto? Sulle regole del gioco? O piuttosto l’ha subìta perché non sa indicare una sua idea di modernità? La destra ha una idea chiarissima: la prevalenza del mercato libero, in parte globalizzato, in parte regolato su base nazionale. Le forze populiste hanno una idea altrettanto chiara: il dominio del mercato, ma solo in un quadro nazionale, con una inversione di tendenza della globalizzazione. La sinistra non ha nessuna idea. E oggi, non avere una idea sul rapporto tra mercato e diritto e anche tra liberismo, libertà e stato di diritto, vuol dire non avere una idea della modernità. E’ impossibile, in politica, vincere senza saper esprimere una propria idea di modernità.

Sono rimasto molto colpito, nei giorni scorsi, ascoltando il dibattito che si è svolto alla direzione del Pd e poi ascoltando, quasi in contemporanea, l’apertura dell’anno giudiziario dell’avvocatura. Da una parte la riunione di un partito che raccoglie l’eredità del pensiero politico cattolico e di quello di tutta la sinistra socialista e comunista, dall’altra parte un incontro di categoria professionale. La riunione del Pd però mi è parsa una riunione di corporazione. Quella degli avvocati un momento di discussione politica vera, sulle grandi questioni che riguardano il futuro della nostra società e l’assetto dello Stato.

È solo un paradosso questa inversione di ruoli? Oppure è il sintomo di una crisi che sta esplodendo nelle classi dirigenti di questo paese – e probabilmente di tutto l’Occidente, scosso dalla globalizzazione – e che può essere affrontata solo se la politica si decide ad accettare dei paradigmi nuovi, nuovi dialoghi, nuovi sistemi di alleanze ( politiche, sociali e professionali)?

Tendo a credere che la risposta giusta sia la seconda. Il linguaggio delle scissioni, delle rese dei conti nei gruppi dirigenti, della sottovalutazione dei programmi, è un linguaggio vecchio, vecchio, vecchio. E muto. Ormai non esprime più nulla, non corrisponde a nulla. La politica ha bisogno di rigenerarsi confrontandosi con le forze della società, e delle professioni, che sono in grado di portare non una griglia di rivendicazioni corporative ma una piattaforma di proposte di governo. Che non chiedono favori, non offrono dipendenze, ma pretendono di proporre e mettere in gara i propri punti di vista sul governo della società e dello stato.

Ripartendo da qui, solo ripartendo da qui, la politica può ricostruire gli schieramenti e riaprire i grandi conflitti ideali. Sostituire il conflitto con l’odio e il progetto con le formule, può servire ai gruppi di potere a rinviare un pochino la propria morte, ma al paese serve come uno zero.