Siamo diventati una società di odiatori di professione, che tramite il web sembra ormai non avere più argini. Ma qualcosa sta cambiando: sia dalle istituzioni che dalla stessa società civile si levano voci, sempre più allarmate, contro la violenza, l’insulto, la gogna via web. Lo ha ricordato il presidente del Consiglio nazionale forense, Andrea Mascherin, all’inaugurazione dell’anno giudiziario dell’avvocatura. E a Trieste domani e sabato ci sarà la due giorni “Parole O-stili” per reagire e usare in maniera diversa i social network.

È diventato il tema del momento: l’odio alimentato dal web e dai media. Dai politici e contro i politici, dai giornalisti e contro i giornalisti, da e contro chiunque. L’odio. È uno dei temi messi in evidenza anche nella relazione del presidente del Consiglio nazionale forense, Andrea Mascherin, in apertura dell’anno giudiziario dell’avvocatura. «Prevale - ha detto Mascherin sottolineando il ruolo “politico” degli avvocati - il linguaggio dell’odio. E non è solo una questione culturale. È direttamente politica. Coltivare lo scontro serve a eliminare il dialogo e i contenuti. Il linguaggio dell’odio ha riflessi politici rilevanti perché permette di governare gli Stati con gli slogan invece che coi programmi; e questi slogan sono tanto più vincenti quanto più sono violenti». Mascherin non è solo. In questi mesi diverse voci del mondo istituzionale si sono alzate per denunciare questo problema, chiedendo di costruire argini sia di legge che culturali. La presidente della Camera, Laura Boldrini, a sua volta vittima del fenomeno, ha scritto direttamente al papà di Facebook, Mark Zuckerberg: «Sono preoccupata per il dilagare dell’odio nel discorso pubblico. Fenomeno non generato certo dai social network ma che in essi ha un veicolo di diffusione potenzialmente universale». Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ne ha fatto un punto qualificante del suo operato e anche di recente, in un’intervista a Repubblica, ha ricordato «il fatto che i social sono diventati il principale strumento per veicolare messaggi di odio che sono spesso il presupposto per la radicalizzazione violenta. La giurisdizione, con gli strumenti tradizionali, non ce la fa. Questi messaggi sono troppi, è incerta la competenza, spesso gli autori si nascondono dietro false identità e si diffondono con una rapidità impressionante» . È chiaro che lo sforzo deve essere di tutti. Sono troppe le vittime cadute nella rete dell’odio. Vittime che spesso stanno zitte, altre volte si ribellano. E poi c’è chi non ce la fa come Tiziana Cantone, che si è tolta la vita per essere stata presa di mira dopo la pubblicazione, contro la sua volontà, di un video privato. Chi frequenta i social sa che sono uno strumento incredibile di comunicazione, ma che possono essere anche un’arma a doppio taglio.

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Basta poco per trasformare persone perbene, nella realtà gentili, in odiatori di professione. Capita a tutti, anche a coloro che sanno meglio maneggiare le parole. È per questa ragione che un gruppo di pubblicitari, dalla scorsa estate, ha iniziato a vedersi, per ragionare e capire come reagire contro l’onda di denigrazione, aggressività, insulto. Hanno così inventato la due giorni “Parole O- stili”. Ostili come le parole che veicolano l’odio, “stili” come quelli che dovremmo mettere in campo per farci promotori di un cambiamento. L’incontro, che si svolge a Trieste domani e dopo domani, è già un successo. Migliaia le adesioni. Come se l’iniziativa, cui partecipano la presidente Laura Boldrini e il direttore di La7 Enrico Mentana, avesse colto un sentimento diffuso: il sentimento di chi dice “basta”. Basta odio.

Ai tanti che odiano corrispondono altrettanti che, nelle istituzioni e nella società, sentono la necessità di fare qualcosa. Non si può che partire ognuno dal suo ruolo, dalle proprie responsabilità. All’iniziativa “Parole O- stili”, per esempio, intervengono diverse testate nazionali tra cui noi de Il Dubbio. I giornali non si possono chiamare fuori dal clima fatto di gogne, giustizia fai da te, processi mediatici che si sovrappongono al vero e proprio processo. Tutto ciò ha alimentato un mutamento radicale nella società che mette a serio rischio lo Stato di diritto. Se la piazza diventa quella mediatica e se questa piazza si sostituisce ai giudici, qualcosa di profondamente negativo sta accadendo. Qualcosa che va fermato. Ma anche su questa analisi, che dovrebbe essere pacifica, quasi scontata, non tutti sono d’accordo. Ieri sul Fatto quotidiano con due pagine si rivendicava come fattore positivo la nascita de processo mediatico, fatta giustamente risalire a Tangentopoli. «Le vere manette ai politici corrotti le ha messe la tv» è il lungo articolo di Pino Corrias che ricostruisce il rapporto, in quegli anni, tra la Procura di Milano e la televisione. Ma invece di leggere criticamente quello che stava accadendo e che oggi è consuetudine, cioè i processi fatti da stampa e tv, il giornalista del Fatto lo esalta e lo considera come un elemento positivo, democratico.

Non è così. È sotto gli occhi di tutti come il fenomeno del processo mediatico, non solo tenda a sostituirsi alle aule di tribunale, ma abbia alimentato sfiducia nella giustizia, risentimento, odio. L’episodio di Vasto - dove il marito ha ucciso il giovane uomo che aveva investito la moglie, poi morta, senza aspettare che la giustizia facesse il suo corso e stabilisse le responsabilità - è l’esempio di cosa stia accadendo, di cosa potrebbe accadere sempre di più. Il processo mediatico anticipa la sentenza addirittura alle prime fasi dell’inchiesta, annulla la presunzione di innocenza, condiziona l’esito del processo. Ma questo non è tutto: muta nel profondo la nostra società minando lo Stato di diritto e contribuendo a costruire la società dell’odio. Se si è colpevoli appena si è indagati, il popolo che si esprime sul web si sentirà in diritto di offendere, insultare, un giorno anche di decidere quale pena infliggere. Si chiama barbarie. Ma c’è una novità. L’odio non è finalmente più l’unico protagonista del dibattito pubblico.