Il film Le vite degli altri ( Das Leben der Anderen) si chiude con la scena dell’ex ufficiale della Stasi Gerd Wiesler che acquista il libro scritto da Georg Dreyman, l’intellettuale che doveva spiare e che invece ha salvato. Il commesso chiede a chi sia destinato il libro. «E’ mio», risponde l’ex poliziotto ridotto a fare il postino.. Quel “è mio” nell’originale sta per: «E’ la mia storia». Come tradurlo dandogli il vero significato, e al tempo stesso rispettando il doppio senso?

Ecco l’arte, la difficoltà, l’importanza, della traduzione; del saper cogliere e trasmettere sentimenti, emozioni, stati d’animo, il senso della scelta di un termine. Vale per un film, figuriamoci per una poesia, un diario, un epistolario: dove ci si “scioglie”, si offre il proprio intimo; tra quelle righe ci sono mondi fatti di consapevolezza, scoramenti, la storia di “percorsi”, evoluzioni.. Eppure, quando si sfoglia un libro è fugace, distratta l’occhiata che si dà al traduttore; le stesse case editrici, spesso, ne tengono in ben poco conto il compito essenziale. Eppure la traduzione è entrare nell’anima di chi scrive, e dare un’anima a un testo che fatalmente diventa diverso, che diversa è la lingua. L’opera deve restare aderente all’originale, al suo autore; al tempo stesso inevitabilmente si trasforma anche in opera del suo del traduttore. Conservare “l’anima” originaria, lavorando con un differente materiale, e dunque “costruire” un’anima diversa: un uguale che è diverso, un diverso che è uguale. Facile, vero, fare il traduttore? Sa cosa fa, Dio, quando, distrutta la presuntuosa torre di Babele maledice l’umanità: «Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro».

Sono pensieri che si affastellano nel leggere le lettere del poeta statunitense Wallace Stevens all’amico cubano, anche lui poeta, José Rodriguez Feo: Buona fortuna, amigo tropicale, per la cura di Michelle Muller, traduzione di Aldo Bandinelli per le raffinate edizioni Emiliano degli Orfini, euro 10).

Libro esile, nel suo formato: 125 pagine appena; tuttavia denso, e sorprendente, capace di meravigliare. Ecco a un certo punto le riflessioni sulla differenza tra Stendhal e Flaubert: il primo «è la personificazione delle regole della prosa», e a Flaubert è destinato a sopravvivere. «E’ un punto di riferimento per chi è maturo, mentre Flaubert lo è per l’artista, e forse per l’immaturo…». Parla a se stesso Stevens, più che a all’amico e attraverso Stendhal e Flaubert si svela? Si prendano un paio di passaggi relativi alla poesia ( e alla importanza della parola che la esprime): «… non posso giudicare l’aspetto poetico perché non conosco la lingua, e in poesia la lingua è tutto» ( pag. 30); e: «Credo che fosse il Tasso ad amare la lettura del greco senza conoscerne una parola; allo stesso modo traggo enorme piacere nel leggere le mie poesie in spagnolo…» ( pag.

61). E non mancano riflessioni apparentemente svagate: «Non è più importante una riflessione dopo una zuppa, che leggere un capitolo di un romanzo prima del pasto?... Non posso credere che il mondo non sarebbe migliore se riflettessimo su di esso dopo un pasto veramente appagante. Quanti danni hanno fatto gli aforismi degli uomini vuoti!». Saggio invito a diffidare di chi non ama la buona tavola e si limita a miseri ( e miserabili) spizzichi… Delle lettere di Stevens si può dire quello che lui stesso scrive a proposito del carteggio tra Romain Rolland e Malwida von Meysenbug: «Lettere incredibilmente interessanti e senza una ragione particolare».

Ora, una confessione: chi scrive si occupa di poesia in modo molto dilettantesco: nel senso di provarne letterale diletto alla lettura del verso; una sorta di appagamento che viene dalla lettura di Dante, Leopardi, o Lawrence Ferlinghetti, presi a caso, come il bimbo che si china a raccogliere una conchiglia e non un’altra, magari più bella, e non sa dirti il perché della scelta.

Sarà stata, ad attirarmi, l’elegante e sobria, essenziale veste grafica ad attirarmi, quel pome- riggio, in quella piccola libreria di via degli Zingari nel romanissimo quartiere Monti, tra edizioni dell’usato e del modernariato? Oppure a intrigare è quel curioso titolo: Buona fortuna, amigo tropicale.

[caption id="attachment_32202" align="aligncenter" width="346"] Scena dal film "Le vite degli altri" Scena dal film "Le vite degli altri"[/caption]

Non libro di poesia, ma libro di poeti lo definisce l’amico che mi accompagna. Come ho accennato è una selezione ( trentacinque) delle lettere che l’allora ultrasessantenne Stevens invia, tra il 1945 e il 1954, al più giovane, poeta cubano Rodríguez Feo, editore in proprio di una rivista di letteratura. Stevens di professione è avvocato di una compagnia di assicurazioni, ma la sua passione per la poesia è totalizzante; infatti praticamente solo di poesia trattano le sue lettere: scritte per essere lette solo dal suo interlocutore; probabilmente l’idea di pubblicarle non lo ha mai sfiorato; dunque ancora più preziose: rispecchiano gli umori del momento; ma sono anche il “documento” di convinzioni profonde, sedimentate. Rivelano un “percorso” intellettuale, ricco di una quantità di feconde contaminazioni; in poche righe concentrati giudizi precisi, meditati, su Rolland, Jean Paulhan, Roger Caillois, acute osservazioni su Scott Fitzgerald, Hemingway.

Lettere che raccontano anche di un’America ingenua, sognante e sognata; quell’America “madre” di una parte di America che oggi ruggisce quella che crede essere la sua rivincita.

L’America del neighbor ( Stevens vive ad Hartford, Connecticut); nelle lettere emerge il suo anticomunismo, ma non si interessa in modo particolare delle vicende politiche del suo tempo; tuttavia non si sottrae quando si tratta di difendere il poeta William Carlos Williams, accusato di filocomunismo ( nel 1952 per questo perde il posto di consulente della Biblioteca del Congresso). Cuba in quei giorni è dominata dal regime di Fulgencio Batista, vero e proprio paradiso per Cosa Nostra; Fidel Castro e la sua dittatura comunista non nascono per caso. Eppure quell’America ( Stevens compreso), è preda di una sconcertante miopia, per cui la Cuba di Batista è “semplicemente” un luogo accogliente dove svernare, sorseggiando un Daiquiri, «isla de alegria e felicitad» . «La poesia è un fagiano che scompare nel sottobosco», dice Stevens. Un sottobosco infinito, ricco di sorprese e di meraviglie. Aveva ben cura di tenerli “secretati”, della loro esistenza sanno pochi intimi. Ma chissà quali tesori si potrebbero trovare, per esempio, tra i foglietti che un giovanissimo Marco Pannella riempiva con suoi versi; e chissà se gli sono sopravvissuti o sono andati dispersi chissà dove e come. Questo per dire che è bene uscire dall’iconografia statuaria a cui spesso si affida l’immagine del “poeta”. Con Buona fortuna, amico tropicale ecco il “ritratto” di un grande poeta ( tra i massimi del Novecento anglosassone, lo si può accostare a Ezra Pound, a Thomas S. Eliot), che ha “posture” molto simili al nostro Eugenio Montale: un borghese, che ama pranzare al club preferito, sorseggia un paio di Martini e prova fastidio a recarsi a New York. Le sue sono giornate perfino “noiose”, scandite dalla scrittura di poesie da pubblicare su questa o quella rivista; avendo cura di scansare quanto si scrive su di lui: «Questo è frutto di vera saggezza, perché ritengo che sia seccante leggere tanto le lodi quanto le critiche. C’è qualcosa che rende i poeti, e probabilmente anche gli scrittori, i pittori, i musicisti esageratamente avidi di attenzione, vale a dire di elogi. Per di più, sono facilmente e violentemente seccati del contrario…».

Il volume è impreziosito da una nota di Michelle Muller, editrice della “Emiliano degli Orfini”. Del ruolo, dell’importanza della traduzione, s’è detto. Pagina dopo pagina ci si rende conto che questa raccolta di lettere non è “solo” un documento per meglio comprendere il suo autore; testimonia della passione letteraria di chi ha curato questa edizione italiana. Grazie a loro la “cosa” che chiamiamo libro, non è solo un “prodotto”. Se si può ancora parlare di poesia, arte, letteratura, lo si deve a persone come quelle citate in questo articolo. Sono i Montag e le Clarisse dei nostri tempi.