Se Paolo Villaggio- Fantozzi è il suo “è una cagata pazzesca” è entrato trionfalmente tra le categorie critiche, si metta agli atti che, alla faccia di colleghi accademici e parrucconi, per Smetto Quando Voglio Masterclass, nelle sale dal 2 febbraio, possiamo tirar fuori la categoria “figata pazzesca”.

Già. Non “bel film”, “commedia amara e di genere” o anche “action movie all’italiana” e pure “film d’autore pop”. E dire che è tutte queste cose, ma la verità è che la prima volta che esci dalla sala vien da dire quella parola di sei lettere. Perché ti sei goduto intrattenimento di alto livello, perché ti sei detto che allora dei produttori italianissimi Domenico Procacci con la Fandango e Matteo Rovere con la Groenlandia - possono e vogliono divertirsi e divertirci con scene ambiziose, ricche di effetti speciali, con cast importanti ma pensati e con una coralità che nella scrittura e nell’interpretazione trovano sempre una strada non banale.

Smetto quando voglio Masterclass non ha la freschezza sorprendente del primo capitolo, neanche la rabbia tenera dei suoi protagonisti, la voglia di rivalsa sociale, il senso profondo di un manifesto generazionale. Sydney Sibilia e soci parlano a un pubblico diverso, che non ride più indignandosi - o viceversa - perché ancora spera di cambiare le cose. Nel carcere del precariato e dell’ingiustizia ci siamo chiusi tutti ormai, e hanno buttato la chiave. Come per il capo della banda dei ricercatori, Pietro Zinni, che anzi a Regina Coeli vuole rimanerci perché ora ci insegna. La rabbia contro la società qui si trasforma. In un action, in un heist movie, un incalzante corsa verso la libertà che vede nel più classico guardie e ladri, in cui le prime si alleano con le seconde e le seconde interpretano le prime, il suo sbocco narrativo e se proprio volete trovare un messaggio e un nemico, avrete l’ennesima dimostrazione di come le istituzioni siano ciniche, bare e scorrette.

Non lo ammetteranno mai, ma i ragazzi di SQV sono molto più punk e rivoluzionari di quanto vogliano sembrare, fuori e dentro lo schermo. Quel disincanto ingenuo di un Edoardo Leo sempre più capace di prendersi lo schermo, sorta di Candide tanto bravo a ideare piani quanto a cascare con tutte le scarpe in quelli altrui; quell’entusiasmo infantile per la chimica e sì, pure per le droghe, di quel genio di Stefano Fresi; la caratterizzazione fatta di dettagli infinitesimali di Aprea e Lavia; la guasconeria e l’eclettismo di Libero De Rienzo, la cialtroneria permalosa di Paolo Calabresi, l’istrionismo di Pietro Sermonti, sono tutte facce di un racconto che nella sua assurdità, nel suo continuo e parossistico rilancio col destino, in quell’armata Bracaleone, racconta noi, splendidi, titolati e umiliati 40enni che non si rassegnano a non provare a prendersi ciò che è giusto, ciò che meritano. A tutti i costi.

La bravura di Sibilia sta nel dir loro di pensarsi come Clooney e soci nella saga di Danny Ocean, nel giocarsi le carte Giampaolo Morelli e Marco Bonini ( e nel farci intravedere il supercattivo Luigi Lo Cascio) come se avessero sempre fatto parte della banda, nel continuare a giocare con citazioni e modernizzazione del cinema italiano in modo molto laico. C’è meno Breaking Bad, qui, e più cinema hollywoodiano, persino nell’aver girato secondo e terzo capitolo contemporaneamente ( con tanto di teaser sui titoli di coda: si chiamerà Smetto quando voglio ad honorem e preparatevi: ci saranno terrorismo e gas nervino), come ai tempi Ritorno al Futuro o, più recentemente, Matrix. Lo dice meglio di tutti Edoardo Leo, in conferenza stampa. “Quando leggi che c’è da fare a cazzotti con Luigi Lo Cascio su un treno, che devi guidare un sidecar nazista con Stefano Fresi sulla Cristoforo Colombo, pensi che questa volta è finalmente toccato a te di fare cose incredibili ed è un’occasione imperdibile”.

[embed]https://youtu.be/RR6d72Ko_QU[/embed]

E lo pensi anche da spettatore, diamine, perché c’è un regista giovane e di talento, una squadra di bravi attori non compilata con il reference system o con le liste degli agenti o del loro presunto effetto sul botteghino, un comparto tecnico clamoroso, dai costumi alla fotografia, per non parlare del montaggio. Viene curiosità a capire se e come la brava ( e anche molto bella, va detto) Giusy Buscemi si svilupperà nel suo personaggio - giornalista free- lance ( ovvero precaria, naturalmente) - anche perché se proprio dobbiamo trovare un difetto al film e alla saga è il non cavarsela troppo bene con i personaggi femminili, dalla Valeria Solarino sacrificata nel primo capitolo e pure in questo, alla Greta Scarano ispettrice che in Suburra ha dimostrato quanto sia cazzuta e talentuosa e che qui ( per ora) ha il freno a mano tirato. Insomma, questa action comedy all’italiana è venuta alla grande così come il fumetto targato Recchioni- Bevilacqua, perché se dobbiamo far le cose all’americana non ci facciamo mancare nulla. Stefano Fresi lo ha definito “una figata pazzesca”. Come volevasi dimostrare.