Adesso è di moda la post-verità. Uno incolto potrebbe pensare che la post-verità sia quello che una volta si chiamava menzogna ma in realtà non è proprio così. Tra la idea di menzogna e quella di post-verità sta la morte della idea di verità. I saggi, i colti, ci hanno spiegato che la verità non esiste.

Prima ancora dell’era del web e della proliferazione incontrollata dei blog, dalle colonne dei grandi giornali e dalle cattedre universitarie ci hanno detto che la verità è pericolosa per la democrazia, che quelli che credono una verità hanno la tendenza naturale ad imporla e quindi sono tendenzialmente totalitari. C’è stato anche chi ha denunciato la pretesa totalitaria della ragione ed esaltato il primato della autenticità soggettiva.

Che succede quando muore l’idea di verità? Ognuno di noi è abitato da un groviglio di impulsi, paure, desideri e tensioni istintive. La idea di verità ha la funzione di controllare (Foucault direbbe sorvegliare) questo magma, di costringerlo a fare i conti con la realtà. Se questo non avviene l’uomo rimane prigioniero di se stesso, perde la capacità di adattarsi all’ambiente, infine muore. Della realtà fanno parte anche gli altri esseri umani. Quando muore l’idea di verità muore anche il dialogo che unisce gli uomini fra di loro. Ogni uomo infatti ha una sua verità, che è la risultante delle sue interne passioni dell’anima. Per poter confrontare la mia verità con la verità dell’altro ho bisogno di credere in una verità più grande che possiamo scoprire insieme.

Se questa idea viene meno avremo il pluralismo delle verità. Ognuno griderà la sua verità con tutta la forza di cui dispone. Il pluralismo delle verità era l’ideale dei decostruzionisti (quelli che volevano decostruire l’idea di verità). Essi, per la verità, immaginavano la coesistenza pacifica, senza violenza, delle diverse verità. Adesso abbiamo visto che si sbagliavano. Non vedevano il fatto che viviamo in un mondo comune e diamo forma alle nostre società attraverso un lavoro comune. Per realizzare il mio desiderio, per dare forma alla mia idea di verità, ho bisogno della collaborazione dell’altro. Credevano che il desiderio fosse buono o almeno innocuo. Non vedevano che l’invidia la violenza contro l’altro uomo è una componente fondamentale del desiderio non sottoposto al vincolo della ragione. Assistiamo dunque ad una regressione di massa. Nel Mercante di Venezia Shakespeare ci offre un modello insuperabile di questo movimento di pensiero. Io sono frustrato per le mille ragioni che si frappongono fra il mio desiderio e la sua realizzazione. Invece di cercare un percorso reale verso la realizzazione del desiderio mi trovo un responsabile immaginario della mia infelicità. Nel caso di Shakespeare questo responsabile è Shylock, l’ebreo. La mia frustrazione è reale e la condensazione delle sue cause in un personaggio fantastico è una grande opera d’arte. La identificazione di questo personaggio fantastico con l’ebreo reale è invece demoniaca (esiste anche il demoniaco nell’arte). Io sento che l’ebreo è la causa del male del mondo e, data che non esiste nessuna ragione superiore abilitata a giudicare del mio sentimento, allora l’ebreo è davvero, almeno per me (e per quanti si lasciano contagiare dal mio sentimento) la causa di tutti i mali del mondo.

Per la verità una crisi analoga della idea di verità l’Europa la ha vissuta fra la fine del secolo XIX e gli inizi del secolo XX. È da quella crisi che nacquero i totalitarismi. Non a caso i nuovi filosofi della decostruzione fanno tutti riferimento a Nietzsche.

Adesso si tende ad addossare al web tutti i mali della post verità. Il ragionamento andrebbe rovesciato. La diffusione del web ha effetti così distruttivi perché avviene in un tempo storico che già precedentemente aveva rinunciato alla idea di verità. Non abbiamo assistito a linciaggi mediatici fatti dalla grande stampa che adesso si straccia le vesti per le bufale del web già molti anni prima della diffusione di internet?

Sia chiaro: internet va regolato ed è del tutto inaccettabile l’idea che esso possa essere uno spazio anarchico in cui ci si sottrae alla responsabilità per le proprie azioni. Talvolta le parole sono pietre e chi le scaglia non si può sottrarre alla propria responsabilità. Il problema vero, però, non è la regolamentazione del web, é la riabilitazione della idea di verità.

Un problema strettamente connesso, poi, è quello del ripristino dei confini fra i generi letterari. In occasione dell’anniversario dell’attentato a Charlie Ebdo si moltiplicano gli articoli che chiedono un uso responsabile della satira. È giusto chiedere a chi fa della satira di essere responsabile? La satira è sempre stata un modo di far emergere il represso. Rido perché scopro in me stesso un umore che collude con quello che la satira mi dice, per crudele ed osceno che sia. Ne rido perché so che non è vero. È come andare allo zoo (pardon: al parco biologico) a vedere gli animali feroci. Mi diverto perché so che sono inoffensivi. Il vero problema è che è saltata la distinzione fra la satira e l’informazione. Una satira politicamente militante ha diseducato una generazione abituandola a pensare che il satiro dice la verità ovvero che non esiste differenza fra il sentimento soggettivo e la verità.

Fra il sentimento soggettivo e la verità esiste il controllo della ragione. La ragione vaglia i fatti e valuta se essi confermino o contraddicano il sentimento soggettivo. La ragione sottopone il sentimento soggettivo al controllo metodico del dubbio e lo lascia valere solo se supera (nella misura in cui supera) questo vaglio del dubbio. Nel fare questo la ragione considera diverse ipotesi alternative. Esse hanno però il dovere di rendere ragione di tutti i fatti accertati, non possono selezionare solo i fatti che le confermano tacendo quelli che le contraddicono. È solo attraverso questo difficile esercizio che cresce una opinione pubblica matura. Senza di essa però la democrazia muore.