Una volta accadde che un suo film finì stroncato da Indro Montanelli. E lui, Steno, non riusciva a darsi pace. Eppure quando, qualche anno dopo, i due si incontrarono, Montanelli arrossì e andò a scusarsi col regista. Disse: «Sai, Steno, io quel tuo film non lo avevo nemmeno visto. Mi serviva come pretesto per parlar male del cinema italiano…». E la faccenda fu subito ricomposta. Tanto che il grande giornalista, sapendo bene che Steno era stato un pupillo e amico di Leo Longanesi come lo era stato lui, lo volle subito come collaboratore illustre del nuovo Giornale, il quotidiano che aveva da poco fondato. Il cineasta scrisse per quella testata con decine e decine di articoli. Steno incarnava, del resto, al meglio una “certa idea” dell’Italia. «Sempre in giacca e cravatta, è stato il simbolo – hanno raccontato i due figli, Enrico e Carlo Vanzina, anche loro registi e sceneggiatori – di quell’Italia che non c’è più, un’Italia capace e perbene, quella dei Monicelli, dei Risi, dei Comencini, dei Salce, della quale papà, regista cresciuto all’ombra di Blasetti e Soldati, Mattoli e Camerini, è stato in un certo senso il padre fondatore».

All’anagrafe Stefano Vanzina, era nato a Roma il 19 gennaio del 1917, cento anni fa. Figlio di Alberto Vanzina, un giornalista del Corriere della Sera, a tre anni rimase orfano del padre con la famiglia che a Roma versava in grandi difficoltà. Nonostante tutto, si iscrive al liceo Mamiani di via delle Milizie che tutti i giorni raggiungeva a piedi da via Savoia, quartiere Trieste. Completò gli studi liceali e si diplomò scenografo all’Accademia di Belle Arti. Quindi inizia a disegnare articoli satirici, vignette e caricature, adottando allora lo pseudonimo di Steno in omaggio ai romanzi popolari di Flavia Steno, prima alla Tribuna illustrata e quindi al Marc’Aurelio, il celebre giornale umoristico che fu la fucina di nomi in seguito importanti come Federico Fellini, Vittorio Metz, Ettore Scola e Marcello Marchesi. «C’era lì una fronda – ricorderà Fellini anni dopo – molto leggera nel linguaggio, ma nella dissacrazione del linguaggio, anche nel turpiloquio, c’era qualcosa che contraddiceva vistosamente l’orpello e la retorica ufficiale del regime…». In questo clima l’incontro, fondamentale, di Steno con Leo Longanesi. «Non ricordo quando lo conobbi – ha rievocato lo stesso Stefano Vanzina – ma so che mi parve di averlo sempre conosciuto. Simpatizzammo subito. Allora noi dei giornali umoristici eravamo snobbati dalla cultura ufficiale. Leo, invece, si dimostrò subito amico e interessato al nostro Marc’Aurelio, al gruppo di Metz, Mosca e Marchesi, e questo mi piacque. Lui che dava del “lei” a tutti, a me diede subito del “tu”. E fu allora che diventai amico di Longanesi: cominciai ad andare a casa sua e a vederlo tutti i giorni. Fu Leo che mi introdusse nel mondo del cinema». Il figlio Enrico ha più volte ricordato come, alla notizia nel 1957, della morte prematura di Longanesi, Steno si rinchiuse nel suo studio da solo a piangere per una giornata l’amico scomparso. Splendido il ricordo del regista che venne pubblicato nell’edizione speciale del Borghese, il settimanale diretto da Longanesi, in ricordo del fondatore appena scomparso.

Avviato proprio da Longanesi, come fu anche per Ennio Flaiano, a scrivere per il cinema, dopo l’ 8 settembre Steno dovrà fuggire da Roma proprio in compagnia dell’amico Leo e di Ma- rio Soldati e, al termine di un viaggio picaresco attraverso l’Abruzzo ( raccontato anche nel suo bel libro Sotto le stelle del ’ 44. Un diario futile, edito da Sellerio), e avrà modo di vedere l’Italia distrutta dalla guerra e dai bombardamenti sino ad arrivare sano e salvo a Napoli. Quindi, nel dopoguerra, la regia insieme a Mario Monicelli di alcuni indimenticabili film con Totò – Guardie e ladri, Totò cerca casa, Totò con le donne, Totò a colori – che ci regalarono affreschi memorabili dell’Italia di quegli anni, «dove il talento – hanno annotato i figli di Steno – graffia l’attualità, come l’esilarante sketch dell’onorevole Trombetta nel vagone letto o dove appare il Totò ladro che combatte una guerra tra poveri con la guardia Fabrizi: un capolavoro premiato a Cannes». Poi Monicelli e Steno si separano e Steno da solo, si allea con Alberto Sordi, realizzando pellicole altrettanto indimenticabili: Un giorno in pretura

( dove compare, unica volta da attore, anche il giornalista e regista Gualtiero Jacopetti), Un americano a Roma, Piccola posta, Mio figlio Nerone.

Il personaggio di Nando Mericoni, l’americano a Roma che apparirà in più di un film, rappresenterà al meglio un’icona degli italiani di quegli anni del dopoguerra, a metà strada tra il romanesco di tutti i giorni e il sogno dei miti di Hollywood. Nel 1973 col suo nome completo Stefano Vanzina, il regista sempre con Sordi, Anastasia mio fratello, sceneggiato con Sergio Amidei e lo stesso Sordi.

Steno comunque continuerà non solo con altri film di Totò – tra i quali l’indimenticabile I due colonnelli del 1962 – ma, nei primi anni Settanta, realizzando addirittura il primo “poliziottesco”, La polizia ringrazia, interpretato da Enrico Maria Salerno e Mariangela Melato. Poi, a parte i film con Bud Spencer – il ciclo di Piedone lo sbirro e il simpatico Banana Joe – oltre al cult movie del 1976 Febbre da cavallo, con due straordinari Gigi Proietti ed Enrico Montesano, ci piace ricordare il suo La patata bollente del 1979, un film che sul tema dell’omofobia anticipava tematiche che diverranno d’attualità qualche decennio dopo e che oltretutto era stato scritto e diretto da un regista non di sinistra. Nel film Bernardo Mondelli – detto il Gandhi – un metalmeccanico e sindacalista di provata fede comunista interpretato da Renato Pozzetto viene emarginato dai suoi “compagni” per aver ospitato nel suo appartamento Claudio, un gay in difficoltà col volto di Massimo Ranieri e per cercare di redimerlo il consiglio di fabbrica lo invia addirittura in viaggio premio in Urss. In quel mondo del cinema in cui tutti finta di sembrare di sinistra, Steno era invece un liberale convinto, votava per il partito di Giovanni Malagodi e – da longanesiano qual era – guardava all’attualità sempre con ironia e disincanto. «Nel dopoguerra – ha raccontato il figlio Enrico nel bel libro Una famiglia italiana

( Mondadori) – fu non- comunista e fu osteggiato dai cattolici integralisti e dai massimalisti di sinistra. Come dire, non ebbe una buona stampa a suo favore. Fu sottovalutato dagli intelligentoni. Ma essendo più intelligente di loro, oggi lui rimane, molti di loro sono stati invece dimenticati». Scomparirà all’improvviso il 16 marzo 1988, appena settantenne.

Questo è stato Steno. Nella sua filmografia il meglio dei grandi attori italiani del secolo scorso: oltre ai grandissimi già citati anche Peppino De Filippo e Tino Scotti, Ugo Tognazzi e Monica Vitti, Vittorio De Sica e Marcello Mastroianni, Mario Carotenuto e Walter Chiari, Nino Manfredi e Enrico Maria Salerno, Paolo Villaggio e Franca Valeri, Diego Abatantuono e Lando Buzzanca. Non solo commedia, non solo satira. Ma la grande capacità di raccontare l’Italia, una certa idea dell’Italia. Lo ha spiegato benissimo suo figlio Enrico: «Papà sognava di scappare in Svizzera, o di andare a leggere qualche romanzo in un caffè parigino della Rive Gauche. Ma adorava Parma, Bologna. Torino. Era cresciuto nel mito di Lubitsch e Billy Wilder, eppure si divertiva con Petrolini, con i fratelli De Filippo, con Walter Chiari e con Raimondo Vianello. Amava solo la cucina italiana. Adorava il jazz, ma impazziva per Paolo Conte. Come i suoi amichetti Flaiano, Brancati, Patti, Talarico, De Feo, sapeva cogliere e poi ritrascrivere sullo schermo i vizi e i difetti degli italiani. Era spietato. Ma di quei difetti italiani non ne poteva fare a meno».