UN OSTACOLO IN MENO SUL CAMMINO DEL GOVERNO

Vero o falso che fosse, la Corte Costituzionale ha azzerato quel fastidioso retropensiero in base al quale Matteo Renzi tifava per l’ammissibilità del referendum sull’articolo 18 considerandola una decisa spinta per andare alle urne in modo da evitare la consultazione. Niente consultazione popolare, perciò. Ammessi, invece, i quesiti sull’abolizione dei voucher e la responsabilità condivisa sugli appalti: toccherà al governo Gentiloni verificare se esistono i presupposti per cambiare le norme nella direzione di accogliere le richieste referendarie oppure se andare a votare non prima di domenica 16 aprile e non più tardi di domenica 11 giugno, che per combinazione è anche la data in cui l’ex premier vorrebbe veder aperte le urne delle elezioni politiche anticipate.

Com’era prevedibile, non appena annunciata la decisione della Consulta è partito il balletto delle dichiarazioni politiche pro o contro. Per cui secondo il leader leghista Matteo Salvini la sentenza «è politica» mentre per il vicesegretario pd, Lorenzo Guerini, consente «di proseguire, senza cesure, il percorso di riforma del mercato del lavoro». Un modo surrettizio per decrittare se la sentenza aiuta la corsa alla chiusura della legislatura oppure la rende più difficoltosa. Un esercizio di strumentalità molto poco elegante per voler ad ogni costo leggere la pronuncia dei giudici costituzionali con gli occhiali dell’interesse di parte.

Ma il punto politico rimane: adesso navigazione più tranquilla per Gentiloni sì o no? I social si scatenano e definiscono la sentenza “articolo 2018” perchè spianerebbe la strada per arrivare alla scadenza naturale della legislatura. Nel campo delle elucubrazioni tutto è ammesso. Tuttavia è obiettivamente arduo non vedere che togliendo di mezzo lo scoglio assai pernicioso dell’articolo 18 viene evitato alla maggioranza ( ma il ragionamento vale anche per Renzi stesso) il pericolo di un rovinoso bis del 4 dicembre. Di converso, anche la conflittualità tra Pd e Cgil risulta stemperata. E’ vero che restano i voucher, che per Luigi Di Maio addirittura risulteranno la spallata finale nei riguardi di palazzo Chigi e delle politiche renziane sul lavoro. Più realisticamente, da un lato sono ormai tante le voci anche nella maggioranza che reclamano la revisione di quella normativa; dall’altro, dopo lo scivolone di Bologna dove il sindacato della Camusso proprio i voucher ha usato per pagare alcune prestazioni di lavoratori pensionati, è impervio prevedere che la Cgil salga con furore sulle barricate per ottenere comunque il voto popolare. E tutto sommato anche il voto sulla mozione di sfiducia verso il ministro del lavoro, Ruggero Poletti, risulta privato degli aculei politici più polemici.

Naturalmente di qui a dire che adesso il percorso del governo è in discesa ce ne corre. Intanto perchè revisionare i voucher con un provvedimento che superi le richieste referendarie resta comunque complicato. E poi perchè la sentenza di ieri non è che l’avvisaglia del tornante vero, il più insidioso: la decisione sulla riforma elettorale attesa per il 24 gennaio. E’ sul quel crinale, infatti, che si gioca la partita della legislatura e della durata del governo. Fare previsioni è impossibile e, a ben vedere, anche inutile. La verità è che più passano i giorni e più la partita entra nel vivo. Renzi è chiamato ad un sussulto di iniziativa perchè aver impugnato la bandiera del Mattarellum non basta. Quel che serve è un accordo che superi il perimetro della maggioranza, e in questo senso l’interlocuzione con Berlusconi diventa forse ineludibile. A meno che proprio la Consulta non finisca per aiutare il lavoro del segretario pd. Se ad esempio il ballottaggio venisse in qualche misura confermato, allora come d’incanto l’ex premier si ritroverebbe con a fianco addirittura i Cinquestelle. Sia il Pd che i grillini sono infatti convinti che il doppio turno li premierebbe. Evidentementre qualcuno si sbaglia.