Che cosa hanno in comune Giuseppe Maranini, Luigi Sturzo, Panfilo Gentile e Marco Pannella? Che nesso unisce cioè un docente di diritto costituzionale, il fondatore del Partito popolare, un liberale conservatore, polemista di rango del Mondo di Pannunzio e del Corriere della Sera, il leader storico del Partito radicale? Che cosa lega questi nomi apparentemente così sconnessi l’uno dall’altro a parte una comune ma molto generica matrice liberale? Sicuramente il fatto di essere stati tra i principali attori intellettuali della critica alla partitocrazia nella cultura politica italiana del secondo dopoguerra. Una critica generalmente sottaciuta, rimossa dal dibattito pubblico del Paese, anatemizzata come qualunquista o addirittura antidemocratica. Accusa assurda se si pensa che Maranini, Sturzo, Gentile e Pannella provengono tutti dal campo dichiaratamente antifascista, ma che rivela la cattiva coscienza di un sistema che rifiuta di guardare in faccia la sua malattia.

Giuseppe Maranini che del termine partitocrazia è addirittutra l’inventore ( lo usa per la prima volta nel 1949, nel corso della lezione inaugurale per l’apertura dell’anno accademico all’università di Firenze) non si stancò mai, fino alla morte ( avvenuta nel 1969) di denunciare da posizioni liberali e federaliste quello che lui stesso chiamava “il regime dei partiti”, l’oligarchia che tende a creare uno Stato nello Stato. «Il problema della democrazia dei partiti, scriveva Maranini, appare come un problema di organizzazione giuridica, e può essere risolto solo su questo terreno». In altri termini quando lo Stato liberale democratico assiste inerte al sorgere dei partiti organizzati e li rende arbitri della sua vita ma non si preoccupa di imporre alla loro organizzazione le stesse garanzie che lo caratterizzano come tale, commette un suicidio, «abdica alla sua funzione di difensore delle libertà individuali».

Sul versante più strettamente politico anche don Luigi Sturzo, parallelamente a Maranini, metteva a tema, tornato dall’esilio americano nel primo dopoguerra, una dura critica alla partitocrazia. Sturzo rilevava infatti che i partiti, compreso il suo, avevano la natura di «ingerirsi pesantemente nell’andamento amministrativo e governativo del Paese così da ridurre la libertà costituzionale del cittadino, da esautorare il Parlamento della sua autonomia fino a occupare militarmentre la società civile attraverso la lottizzazione sistematica di ogni spazio di vita associato».

La battaglia antipartitocratica di Marco Pannella non ha bisogno di essere ricordata. Pannella ha sempre sostenuto che quella italiana non è una democrazia compiuta: ha sempre parlato di un regime antidemocratico in perfetta continuità con quello fascista, laddove al partito unico si è andato sostituendo proprio la partitocrazia.

Panfilo Gentile riguardo il regime dei partiti fu ancora più esplicito: per lui, liberale di destra con idee elitiste, la partitocrazia era in sostanza un regime mafioso retto da oligarchie demagogiche.

Democrazie Mafiose ( ripubblicato pochi anni fa da Ponte alle Grazie), insieme a Polemica contro il mio tempo ( Volpe 1965) e Opinioni sgradevoli ( Volpe 1966) sono i saggi dove Gentile mette a fuoco la sua polemica contro la partitocrazia, fenomeno di cui restituisce una disamina fredda, anatomica, chirurgica, piena non solo di rimandi storici, ma anche di ficcanti notazioni psicologiche sull’antropologia politicante, sui meccanismi di selezione delle classe dirigenti, sulla decadenza delle vecchie elite e la meschinità delle nuove: «Le oligarche mafiose, cui tendenzialmente sboccano le moderne democrazie – scrive - sono oligarchie di piccoli borghesi disoccupati, imbevuti di clericalismo ideologico, portati all’intolleranza e allo spirito settario». Ma già nel 1969, quando ancora si era molto lontani dal parlare di morte delle ideologie e dal percepirle come paraventi per operazioni di potere, Gentile aggiunge: «Però le ideologie sono in realtà soltanto idee vecchie diventate popolari, idee al tramonto […] E con esse appassisce l’impulso vitale che animava ed anima i partiti».

A questa profonda sfiducia per le nuove oligarchie, non corrisponde però una fiducia nel demos. Secondo Gentile infatti, cresciuto alla scuola del realismo elitista di Mosca e Pareto, il popolo «obbedisce a sentimenti elementari, buoni e cattivi, ma sempre incontrollati ed eccessivi». Tanto che «le masse non si fermano al patriottismo moderato, conciliante, ma si scatenano per la nazione e si danno in balìa dei gruppi dirigenti più forsennati e delireanti». Allo stesso modo «l’invidia sociale, come è sentita dalle masse, non è una molla per la propria elevazione. È un odio più generale contro tutte le superiorità e non mira tanto all’eliminazione della propria inferiorità, quanto all’abolizione della superiorità altrui».

In queste considerazioni è condensata implicitamente anche la critica di un vecchio liberale verso i sistemi totalitari novecenteschi di destra e di sinistra. Sistemi che secondo Gentile non hanno mai rinunciato in verità a una componente democratica, visto che dicevano di agire in nome del popolo. Gentile così introduce un altro concetto: democrazia e libertà non sono sinonimi. Anzi, la democrazia spesso finisce col servire su un piatto d’argento la testa della libertà alle oligarchie partitocratiche. «Storicamente, il liberalismo o costituzionalismo, come possiamo chia- mare la dottrina dello Stato di diritto e il democraticismo o popolarismo, furono termini quasi coevi e spesso anche confusi. Ma dal punto di vista dei concetti si tratta di cose diverse».

E infatti lo Stato di diritto secondo Gentile non è più tale dal momento in cui esso è occupato dai partiti che contemporaneamente controllano governo e sottogoverno, enti statali e parastatali, che arrivano a usare anche la burocrazia come un loro strumento, tanto che «la politicizzazione della burocrazia si fa sentire fino al più umile cittadino». Certo, «il rimedio facile a questi guasti sarebbe quello di togliere al governo il diritto di nominare a suo piacere il personale dirigente di tutti questi enti», personale che potrebbe essere reclutato con metodi che possano meglio garantire indipendenza e imparzialità. Ma è un rimedio impossibile, chiosa realisticamente Gentile, «perché in Parlamento non si troverà mai una maggioranza capace di approvarlo, tradurlo in legge. Nella storia si conoscono gli abusi di potere e non la rinunzia volontaria al potere». Peraltro il Parlamento nella spietata disamina di Gentile è un istituzione sotto tutela, il luogo dove la partitocrazia recita i suoi riti esteriori: arcana imperii come quelli degli aruspici descritti da Cicerone.

A questo punto allora si pone la questione più drammatica che Gentile affronta, quella della legittimità del potere, del suo diritto di pretendere obblighi e obbedienza. In questo Gentile è drastico: smascherato il mito della sovranità popolare ( i partiti sono delle oligarchie chiuse capaci di creare consenso indotto col controllo delle risorse economiche e dei mezzi d’informazione) il sistema resta nudo. Il suo potere si regge sulla rendita politica. Metodo che si giustifica con il concetto di Stato assistenziale o sociale il quale ha come contropartita «una tassazione feroce e una pesante ingerenza negli affari economici». Abbiamo così quei regimi «che non sono né socialisti né liberali e nei quali lo spirito egualitario originario del socialismo è decaduto nel pesante e costoso statalismo assistenziale, utilizzato poi dai partiti a scopo clientelare e mafioso».

Ma Gentile va oltre: nella sua analisi del sistema partitocratico non anticipa solo Tangentopoli prevede anche la progressiva liquidazione della politica nelle direzioni del leaderismo populistico da un lato e della resa incondizionata alle logiche della criminalità organizzata dall’altro. «La vita pubblica non attira più gli uomini migliori, non è più un club di gentlemen. E non è nemmeno diventata un arsenale di tecnocrati. Abbiamo purtroppo a che fare con piccoli borghesi disoccupati disposti a tutto pur di fare carriera».

Che cosa è avvenuto? Che i sistemi costituzionali fondati su ordinamenti liberal- democratici e sorretti da una società strutturata in corpi intermedi hanno finito nelle società e nei partiti di massa per soggiacere sempre di più alle spinte dal basso, assecondandone con la demagogia anche gli imperativi più ciechi, le pulsioni più oscure. Ben prima che la categoria di populismo fosse messa a fuoco Gentile ricordava come le stesse dittature di destra e di sinistra, che si sono diffuse in Europa nel secolo scorso, hanno liquidato gli ordinamenti liberali in nome della volontà popolare: «I bolscevichi facevano tabula rasa dello Stato rappresentativo ma non aggredivano il dogma della sovranità popolare. Le dittature di destra riducevano in un mucchio di rovine i vecchi stati liberal- democratici, ma il titolo dei nuovi Cesari era ancora e sempre la volontà popolare».

Il suffragio universale da solo insomma, senza l’equilibrio di istituti di contegno, come la Camera alta inglese per esempio, conduce inevitabilmente alla degenerazione autoritaria o “partitocratica”, a un regime cioè in cui le organizzazioni politiche, sotto forma di macchine ideologico- burocratiche, «sequestrano il potere a beneficio dei loro dirigenti, iscritti, clienti» e impongono un regime dell’affiliazione, con ciò distruggendo l’essenza dello Stato liberale. Ma arriva il punto in cui suona la campana a morto per una classe politica senza più legittimità e idee, arroccata in un sistema di privilegi, incapace di rispondere alle esigenze di una società sempre più complessa.

Non è più solo il demos a imporle con la pressione del numero i propri imperativi, sono le organizzazioni criminali, che intanto hanno pervaso la società e l’economia sottraendo allo Stato il monopolio della forza, a condizionarla se non a dettarle la linea. Gentile descrive insomma il piano inclinato che percorre l’organizzazione politica democratica: dai regimi di consenso, a quelli popolari autoritari, dalla partitocrazia al potere mafioso.

Un quadro disperante quello che traccia Gentile e che non sembra trovare sbocchi propositivi, a parte un vago accenno alla Repubblica presidenziale vista come parziale, anche se rischiosa soluzione, al regime partitocratico. Ma Panfilo Gentile era pur sempre un reazionario, il nostalgico di un’epoca in cui gli Stati erano governati dai probiviri di una borghesia sobria e dignitosa e il suffragio universale era di là da venire. Sentimenti impolitici e inattuali. Di Gentile resta però la lucida e per certi versi insuperata critica alla partitocrazia, ai suoi meccanismi e ai suoi guasti. E con essa resta, purtroppo, anche la partitocrazia. E le sue ulteriori degenerazioni.