La Corte di Cassazione ha stabilito che un datore di lavoro ha il diritto di licenziare un suo dipendente se ritiene, in questo modo, di poter aumentare la redditività dell’azienda e dunque i profitti. Un licenziamento di tipo economico, dunque, non deve necessariamente essere motivato da uno stato di crisi che costringe l’azienda a fare dei risparmi, ma anche - viceversa – da una condizione favorevole che spinge l’azienda a razionalizzare per ottenere maggiori guadagni. La sentenza è stata emessa dalla sezione lavoro della Corte, presieduta da Vincenzo Di Cerbo.

una sentenza destinata a fare giurisprudenza ed a modificare in modo significativo diversi aspetti del diritto del lavoro e i rapporti tra aziende e dipendenti e anche la funzione e il potere dei sindacati. Perché rovescia i principi essenziali che fin qui hanno guidato il diritto del lavoro.

La Corte è intervenuta annullando una precedente sentenza della Corte d’appello di Firenze, che aveva imposto all’azienda non la riassunzione del lavoratore licenziato, ma semplicemente il pagamento di un indennizzo di 15 mensilità, perché mancava la giusta causa del licenziamento. La Cassazione ha stabilito che l’aumento dei profitti e il miglioramento della produttività sono un ottimo motivo, una giustissima causa di licernziamento E dunque al lavoratore licenziato non è dovuto nessun indenniz-È zo. E nel motivare la sua decisione, la Corte ha fatto riferimento all’articolo 41 della Costituzione, quello che stabilisce la libertà dell’impresa privata. La sentenza interagisce naturalmente con il Jobs Act e con le sue conseguenze. Rendendo molto più forti e tutelate le ragioni delle aziende e molto più deboli le difese dei singoli lavoratori. Fino a poco più di un anno fa le relazioni tra aziende e lavoratori erano definite dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori ( che a sua volta era espressione dell’articolo 41 della Costituzione, esattamente l’articolo citato in quest’ultima sentenza), il quale rendeva difficilissimo licenziare un lavoratore se non per provate ragioni disciplinari o nel quadro di una riduzione della forza lavoro regolata da norme rigidissime, e comunque dovuta al bilancio in rosso. I sindacati per più di un quarantennio hanno costruito la propria forza su questo stato di cose, e cioè sulla possibilità di difendere con una certa facilità i posti di lavoro, e dunque di poter contrattare le condizioni di lavoro e i salari all’interno di un sistema di rapporti di forza più favorevole a loro che all’imprenditore. Nel giro di pochi mesi questa situazione si è ribaltata. Ora i sindacati stanno tentando di attenuare i colpi ricevuti con il Jobs act attraverso un referendum, che aspira alla cancellazione di quella legge, e attraverso una pressione politica che spinge il governo Gentiloni, comunque, a modificarla, azzerandone le maggiori asperità. Evidentemente questa sentenza rende molto più complesso il problema, perché aggira il Jobs act e modifica radicalmente il concetto di “giusta causa” che era stato il pilastro di tutte le politiche sindacali. L’idea di fondo era che il diritto al lavoro ( dichiarato solennemente negli articoli 1 e 3 della Costituzione) fosse prevalente rispetto al diritto alla libertà di impresa ( appunto, articolo 41). La Corte invece fa prevalere l’articolo 41. Cosa dice l’articolo 41? Ecco il testo integrale: «L’iniziativa economica privata è libera.

Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali». Lo Statuto dei lavoratori aveva dato la priorità al capoverso che vieta l’iniziativa privata in contrasto con l’utilità sociale. La Nuova sentenza della Corte da invece la priorità alla libertà