Il genetista che segue la famiglia di Chiara Poggi ha bollato il tentativo come «mediatico», «senza alcuna valenza scientifica».

Ma la speranza per Alberto Stasi, condannato a 16 anni con sentenza definitiva, è sempre quella di poter dimostrare la sua innocenza.

La mossa è effettivamente ad effetto. Lo studio Giarda che lo difende ha commissionato una nuova perizia sulle tracce di Dna trovate sotto le unghie della vittima.

Secondo la consulenza difensiva la compatibilità delle tracce sarebbe con il Dna di un altro ragazzo che vive nella zona. Si spera in una revisione del processo.

Fa però pensare la reazione del genetista della famiglia Poggi, Marzio Capra, che bolla appunto come mediatica una mossa che rientra nei diritti della difesa. Fa pensare perché se c’è stato un processo che si è svolto, ancora prima che nelle aule del tribunale, negli studi televisivi e nelle redazioni dei giornali è proprio questo.

È la mattina del 13 agosto del 2007. L’Italia si prepara ad andare in vacanza, la crisi è alle porte ma non è diventata il macigno che si rivelerà qualche anno dopo. A Garlasco, piccolo paese in provincia di Pavia, potrebbe essere una giornata come tutte le altre. Potrebbe, ma non lo è. Verso le 12 e 30, Alberto Stasi va a casa della fidanzata Chiara Poggi. La ha chiamata tutta la mattina, poi insospettito dal fatto che lei non risponda, si reca direttamente nella sua abitazione in via Pascoli. La trova morta, in un bagno di sangue. In poche ore quel caso diventa la prima notizia di tutti i siti, giornali e telegiornali. Non si sa se perché non c’erano altre notizie, o forse per l’età della vittima e del suo fidanzato, ma qualcosa ha fatto scattare subito l’attenzione morbosa dei media. In poche ore Garlasco è diventato il teatro di un romanzo d’appendice, di un tribunale senza giudici e senza difesa, il palcoscenico di un processo senza appello. Sul posto si reca anche Fabrizio Corona, accusato di essere sciacallo da parte di quei giornali che hanno lo stesso comportamento, ma con maggiore grazia e più ipocrisia. Da subito, giornalisti e operatori, si mettono a caccia dell’assassino, che presto è individuato nel fidanzato.

Non può che essere lui, a prescindere dalle prove. E’ come se la sentenza fosse stata scritta in quelle prime ore. Tutto il resto, i 5 gradi di giudizio ( da contare infatti l’Appello bis e la seconda sentenza della Cassazione) sono stati un tentativo di smarcarsi o di ribadire quanto scritto in quelle ore: Stasi è colpevole che ci siano o meno le prove. Il comportamento schivo e addolorato delle due famiglie coinvolte non basta ad arginare la “contaminazione” mediatica della scena del delitto. A un mese dall’omicidio, il pubblico ministero dispone la carcerazione di Stasi. Da lì in poi inizia un’odissea che lo ha portato per due volte ad essere assolto, e poi alla condanna definitiva. Per molti esperti resta un processo indiziario, una condanna fondata non su “è stato lui”, ma su “non poteva che essere stato lui”.

L’aspetto forse più interessante è però ciò che si muove attorno, quel “circo” mediatico che ha trovato, al di là delle prove, l’assassino adatto. Stasi da questo punto di vista è perfetto. Lo si accusa di essere quello che è, di essere come è. La stampa, dopo anni in cui era caduto in disgrazia, riabilita Cesare Lombroso e lo applica al caso di Garlasco: Stasi non può che essere un assassino, sempre così freddo, con gli occhi di ghiaccio. Il suo aspetto, in assenza di altre prove, diventa la prova regina, la certezza che deve essere stato per forza lui. Nel 2002 c’è stato il delitto di Cogne, per cui è stata condannata Anna Maria Franzoni, accusata di aver ucciso il figlioletto. Già allora, l’interesse per la cronaca nera, che c’è sempre stato nel giornalismo, fa un salto in avanti, diventa processo. Processo mediatico. Ma questa macchina, dove la difesa ha poche chance, si olia e si affina a Garlasco.

Con Alberto Stasi i giornali dimenticano la presunzione di innocenza, diventano giudici, orientano le indagini. Certo, è compito del buon giornalismo fare delle contro inchieste, verificare i fatti, cercare di capire che cosa sia accaduto. Ma in questo caso, che poi si ripeterà negli anni con altri omicidi celebri fino ad arrivare a Bossetti, i giornalisti non cercano prove pro e contro, non cercano di capire cosa sia accaduto indagando a tutto campo.

Diventano pm, sposano le tesi dell’accusa, fanno pressioni perché si perseguano alcune piste e non altre. Non sono solo i famosi plastici di Bruno Vespa che ricreano la scena del delitto, per capire come Stasi non si sia sporcato le scarpe da ginnastica col sangue della vittima. No, succede qualcosa di più.

Tutta la televisione viene pervasa dalla formula del processo. Chi l’ha visto? - il programma realizzato meglio, ma forse per questo più pericoloso - diventa uno strumento nella mani dell’accusa. Nasce anche la trasmissione Quarto Grado.

Lo slittamento semantico avviene ogni giorno: si erode il principio della presunzione di innocenza, si afferma l’idea che i processi si fanno davanti alle telecamere. Nel frattempo “il pubblico” perde anche un po’ della sua umanità: pronto a scagliare la prima pietra contro coloro che, ancora prima di una sentenza definitiva, sono dichiarati colpevoli. Nel caso di Stasi, la condanna è definitiva, ma resta il dubbio che contro di lui abbia pesato la macchina mediatica.