E dunque la Camera penale di Roma sciopera per protestare contro le difficili condizioni in cui versano gli avvocati chiamati a difendere i propri assistiti detenuti, sia per quanto riguarda l’accesso alle cancellerie ed agli uffici, sia per quanto riguarda il tipo di decisioni assunte dai giudici di sorveglianza, spesso ritenute e censurate come “ carcerocentriche”. Immediatamente, la corrente che fa capo al presidente Piercamillo Davigo, Autonomia & indipendenza, stigmatizza l’operato degli avvocati affermando che essi vorrebbero “ condurre fuori dalle sedi giudiziarie il dibattito su decisioni non gradite” e che voler sindacare perfino la qualità delle decisioni sarebbe un vero attentato alla democrazia. Che dire?

Che l’accesso alle cancellerie sia spesso complicato e che possa richiedere anche lunghi o lunghissimi tempi di attesa è noto a qua- lunque avvocato. Come ripeteva uno di loro mestamente: “ Trent’anni di professione: uno di lavoro e ventinove di attesa”. Il che fa comprendere abbastanza bene lo stato di disagio denunciato dai difensori non certo per sé, ma per la funzione esercitata, appunto quella a tutela dei propri assistiti. Il fatto è che bisognerebbe davvero smetterla con l’idea del tutto errata e priva di ogni fondamento per la quale l’amministrazione della giustizia è una cosa e il mandato difensivo un’altra, alla prima quasi fastidiosamente appiccicato e del quale in fondo si potrebbe fare a meno per ragioni di rapidità ed efficienza.

Le cose non stanno così: il mo- della difesa si colloca a pieno titolo all’interno della funzione giurisdizionale, della quale rappresenta un ineliminabile elemento costitutivo: prova ne sia che mancando per qualunque ragione il difensore di fiducia, il diritto si preoccupa ve ne sia uno d’ufficio. Ma se le cose stanno in questo modo – e non si vede come altrimenti potrebbero stare – ne viene che dovrebbero essere per primi i giudici a preoccuparsi che gli avvocati siano messi in grado di svolgere al meglio la loro funzione: solo così si potrà ottenere davvero la prova del reale funzionamento di un meccanismo processuale improntato ai principi dello Stato di diritto. In questo, infatti, essenziale è la difesa e non l’accusa: a seconda di come si assicuri al difensore la pienezza del mandato difensivo – non fittizio, non apparente, non reso complicato – si potrà affermare – o negare – che ci si trovi in uno Stato di diritto.

E allora, se i giudici non si preoccupano della corretta amministrazione della giustizia, in quanto non si curano abbastanza delle condizioni in cui viene ad essere esercitato il mandato difensivo, è ovvio che debbano preoccuparsene gli avvocati: il che è esattamente ciò che hanno fatto con questa giornata di sciopero.

Tuttavia, resta la domanda: lo sciopero può essere proclamato anche per protestare contro una giurisprudenza “ carcerocentrica”, vale a dire per motivi afferenti al merito delle decisioni? Premesso che ogni decisione assunta da un giudice è liberamente criticabile – altrimenti non ci sarebbe l’obbligo della motivazione, la quale appunto spiega il percorso logicogiuridico seguito – non si vede perché criticare il merito della stessa possa rappresentare addirittura un “ pericolo per la democrazia”. E se non il merito, cosa bisognerebbe criticare? Il metodo? Anche, ovviamente, ma non basta. Non basta ridurre ogni questione a problemi di carattere strettamente processuale, altro invece essendo il rilievo delle scelte operate dai giudici.

Ed infatti, che farmene di un giudice rigoroso osservante delle norme processuali, se poi assumesse decisioni assurde o comunque prive di quel buon senso che è loro necessario, più di quanto lo sia l’acqua per un pesce? Nessun attentato alla democrazia dunque o, peggio, alla indipendenza dei giudici, ma l’esatto contrario: un forte richiamo a tutela dell’una e dell’altra.

E d’altra parte, anche i giudici in diverse occasioni han fatto ricorso allo strumento legittimo dello sciopero per lamentare varie occorrenze negative. Nessuno si è mai sognato di parlare di attentato alla democrazia: e non si trattava certo di questioni fondamentali, quale appunto l’uso del carcere come strumento privilegiato di detenzione, ma di cose assai più povere e insignificanti. Per esempio, degli scatti di anzianità.