Vittorio Sermonti aveva dieci anni quando il padre cominciò a leggergli la Commedia di Dante; per una vita - che si è interrotta l'altro ieri a 87 anni - lui ha restituito agli italiani il favore. Con tutto il rispetto per Roberto Benigni non c'è stato un altro che ha saputo interpretare e dar voce alla Divina Commedia come ha saputo fare lui. Che leggesse i versi di Dante alla radio o sul palco di una piazza o sotto le volte del Pantheon - indimenticabile quell'appuntamento romano di quasi dieci anni fa dove il Tempio di tutti gli dei pareva schiudersi al paradiso cristiano - si capiva che nella lingua di Alighieri era la patria di Vittorio. Nelle molte interviste che aveva rilasciato in questi anni ripeteva spesso che avrebbe potuto essere un pianista - ha scritto su Mozart, Lorenzo Da Ponte, Emanuel Schikaneder, oltre che su Pietro Metastasio, Ettore Petrolini e August Strindberg - ma il carattere è destino e altro non avrebbe potuto essere che un dantista.A Dante, Sermonti ha dedicato 3 volumi in forma di racconto critico (L'Inferno di Dante, Rizzoli 1988; Il Purgatorio di Dante, 1990; Il Paradiso di Dante, 1993). Tra il 1987 e il 1992 ha registrato per Raitré l'intera Commedia introdotta da cento racconti critici sotto il titolo La Commedia di Dante, raccontata e letta da V. S; tra il 1995 e il 1997 ne ha replicato la lettura, ampliando le introduzioni, nella basilica di San Francesco a Ravenna, davanti a migliaia di persone. Fra l'autunno 2009 e la primavera 2010 ha registrato per intero, con la regia della moglie Ludovica Ripa di Meana e a loro spese, la versione definitiva dei cento commenti-racconto e delle cento letture della Commedia di Dante, dei dodici libri dell'Eneide e di 14 racconti verdiani. Ma del Sermonti dantista e saggista oggi diranno tutti e tutto in fondo è stato già detto.Più interessante è dire forse qualcosa sul romanzo famigliare di Vittorio Sermonti, quinto di sette fratelli, tra cui Rutilio, figura non secondaria del neofascismo italiano. Nel romanzo famigliare di Sermonti c'è l'album di famiglia, la biografia di una nazione rimasta sempre in fondo un'espressione letteraria. Da bambino, Vittorio vedeva circolare in casa dei nonni e degli zii materni figure monumentali: da Vittorio Emanuele Orlando (che era stato suo padrino di nascita) a Luigi Pirandello, da Alberto Beneduce a Enrico Cuccia. Fascista per assuefazione durante il ventennio vittorio si iscriverà al Pci nel dopoguerra: si consuma da allora il rapporto con suo fratello Rutilio che invece aveva aderito alla repubblica sociale e che nel dopoguerra diventerà un punto di riferimento per gli ambienti più radicali della complesso universo neofascista. Tra i fondatori del Msi se ne allontanerà in polemica con la svolta moderata di Michelini e Almirante riaccostandosi a Rauti in anni più recenti. Fino all'arresto di un anno fa, poco prima della morte, con l'accusa di essere l'ideologo, a novantatre anni, di un'organizzazione eversiva chiamata "avanguardia ordinovista". «È un'intelligenza sprecata - commenterà Vittorio, imbarazzato e costernato, a chi lo intervista sul caso - rimasta bloccata alle scelte che fece quando aveva vent'anni». Ma l'ultimo libro Se avessero Vittorio lo dedica a quel suo fratello sbagliato che "è sempre mio fratello" come specificava a chi un po' esagerava, come a scavare nella ferita col bisturi, nel chiedergli particolari di quell'ombra famigliare. Nel romanzo il cui titolo per esteso è Se avessero sparato a mio fratello Vittorio racconta che una mattina di maggio del 1945 quattro partigiani si presentano col mitra sullo stomaco in un villino zona Fiera di Milano alla caccia d'un ufficiale della Repubblica Sociale (o forse di tre), lo scovano, segue un ampio scambio di vedute, e se ne vanno. Era accaduto che con grande disinvoltura e prontezza di riflessi, Rutilio, chiamandoli "compagni" aveva sventolato una tesserina rossa e nera che testimoniava la sua affiliazione agli anarchici. «In realtà l'ho scritto nell'84, questo romanzo ma continuo a lavorarci, non mi sembra mai pronto - diceva Vittorio in un'intervista a Repubblica nel dicembre del 2014 alla vigilia dell'uscita del libro. «È la storia della mia vita dai 15 anni agli 84. Ed è una vita intrecciata a quella di mio fratello». Ma è la storia di una nazione, è la storia italiana presente e futura che già Dante aveva scritto tutta nella Commedia. Divina perché senza tempo: "E ora in te non stanno sanza guerra li vivi tuoi, e l'un l'altro si rode (Purgatorio: 6, 81-84). Guelfi e ghibellini sempre ma pur sempre anche fratelli. Il carattere è destino. Dante ce l'abbiamo nel sangue. Per questo il sangue ci scorreva più forte quando Vittorio ce lo ridiceva. Ricordandoci quel che vorremmo tutti scordare e che scordare non possiamo: che Rutilio è nostro fratello.