Ciriaco De Mita ha detto di Matteo Renzi, nelle ultime battute del confronto televisivo sulla riforma costituzionale, negli studi de La 7 con la conduzione di Enrico Mentana, la stessa cosa detta, a trasmissione però finita, commentando un analogo dibattito da lui avuto col capo del governo, il presidente emerito della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky: «È irrecuperabile». Ma lo stesso deve avere pensato di loro Renzi, che d'altronde li ha accomunati nella medesima accusa: di non avere letto la riforma pur così duramente criticata, avendovi trovato e indicato lo stesso inconveniente non suffragato da alcuno dei quasi 50 articoli della Costituzione modificati dal Parlamento, ma derivante da qualcosa che sta fuori dalla riforma e si chiama Italicum.È il nome, come si sa, della legge ordinaria in vigore dal 1° luglio scorso per l'elezione della sola Camera, nel presupposto che all'elezione del Senato debbano provvedere, con un'altra legge ancora da definire nel caso di conferma referendaria della riforma costituzionale, i vari Consigli regionali. O gli elettori delle assemblee regionali con una doppia scheda, come fu inutilmente proposto dalle minoranze del Pd in Parlamento e ora invece Renzi è disposto a concedere.Sarebbe tuttavia un errore giudicare il confronto televisivo svoltosi fra De Mita e Renzi, che già appare così lontano dopo tutto quello che è successo nel frattempo sulla terra che trema, in base agli aspetti tecnici della riforma. Così come sarebbe un errore dare i voti all'uno o all'altro in base agli scivoloni in cui entrambi sono obiettivamente incorsi. De Mita, per esempio, accusando a torto il presidente del Consiglio, solo per averne letto non ricorda neppure più lui da che parte, di avere talmente abusato del disciplinato e palese voto di fiducia in Parlamento da averti fatto ricorso anche per la riforma costituzionale. Renzi, invece, liquidando sbrigativamente come "quisquilie" le stranezze giustamente denunciate da De Mita di un Senato ridimensionato nei compiti, nei numeri e nei costi, ma dove dovranno continuare a sedere di diritto e a vita gli ex presidenti della Repubblica, più cinque nominati per meriti speciali dal capo dello Stato di turno e destinati a decadere con la fine del suo mandato.È quello umano l'aspetto più autentico e significativo del confronto televisivo fra uno dei decani della politica, De Mita appunto, leggermente meno anziano di leader come Giorgio Napolitano, Alessandro Forlani, Emanuele Macaluso ed altri di cui mi può sfuggire il nome, per cui me ne scuso in anticipo, e sicuramente il più giovane in carriera, come Renzi. Sono due uomini - l'ex segretario ottantottenne della Dc e il segretario quarantunenne del Pd, che più lontani per anagrafe, provenienza territoriale, temperamento, formazione culturale e abitudini non potrebbero obiettivamente essere.Il passaggio in cui De Mita si è più tradito, nella polemica con l'interlocutore, è stato quello in cui gli ha non tanto ricordato quanto rinfacciato di «non essere ancora nato» quando lui già contribuiva in qualcuno dei numerosi congressi del proprio partito a passare da un ciclo all'altro della vicenda politica nazionale. Lì si è colto tutto l'incolmabile e, diciamolo pure, fastidioso stupore che procurava a De Mita la bruciante carriera del giovane col quale stava confrontandosi.Proprio quando De Mita, con cui ho avuto nella mia lunga esperienza giornalistica rapporti altalenanti di simpatia e di ostilità, di piaceri e dispetti, di convergenza e di dissenso, una volta per giudicare il suo ex collega di corrente Fiorentino Sullo e un'altra Aldo Moro, una volta parlando di Mariotto Segni e un'altra di Bettino Craxi, ha contestato a Renzi di non essere ancora nato quando lui nella grande scuderia della Dc già nitriva come un cavallo quasi di razza, essendo allora considerati tali solo Moro e Amintore Fanfani, mi è venuto spontaneo chiedermi che cosa stesse facendo Ciriaco all'età che ha oggi il segretario del Pd e presidente del Consiglio: 41 anni.Ebbene, proprio d'autunno, per fortuna senza le scosse sismiche che sta subendo la terra di cui sto per parlarvi, De Mita era approdato sulle prime pagine dei giornali per un "patto di rinnovamento generazionale" al vertice della Dc stretto con Arnaldo Forlani in un convegno a San Ginesio: una graziosa località marchigiana nota, per la sua collocazione, anche come "il balcone dei monti Sibillini".Dopo qualche settimana Forlani, il delfino di Fanfani che già voleva nuotare al largo, avrebbe sostituito Flaminio Piccoli come segretario della Dc. E De Mita ne sarebbe diventato vice segretario, in rappresentanza della sinistra.Cominciò in quelle settimane del 1969 una stagione politica molto difficile, da far tremare le vene ai polsi. Il 12 dicembre sarebbe esplosa nella sede milanese della Banca Nazionale dell'Agricoltura la bomba d'esordio di quella che venne chiamata "strategia della tensione", antitesi alla "strategia dell'attenzione" verso l'opposizione comunista formulata l'anno prima da Moro, appena deposto da Palazzo Chigi.Il centrosinistra si sarebbe avvitato in una nuova concorrenza fra socialisti e socialdemocratici, reduci da una unificazione fallita. Sarebbe arrivato lo statuto dei diritti dei lavoratori ma anche la disciplina del divorzio, lacerante per un partito di cattolici non ancora adulti come, direbbe oggi Romano Prodi.Sul piano più strettamente politico il primo divorzio a consumarsi fu quello fra la Dc e i socialisti con l'elezione, alla fine del 1971, di Giovanni Leone a presidente della Repubblica con i voti determinanti vantati, a torto o a ragione, dal Movimento Sociale di Giorgio Almirante.Riprese pertanto la collaborazione di governo della Dc col partito liberale di Giovanni Malagodi, pur all'insegna non del già esaurito centrismo ma della "centralità". Che era naturalmente quella della Dc, fisicamente rappresentata a Palazzo Chigi da Giulio Andreotti. Il povero De Mita cominciò ad avvertire qualche difficoltà a tenere il passo con Forlani, ma a togliergli le castagne dal fuoco provvidero Fanfani e Moro nel mese di giugno del 1973, alla vigilia di un congresso democristiano le cui assemblee preparatorie avevano già espresso delegati favorevoli alla conferma di Forlani a Piazza del Gesù e di Andreotti a Palazzo Chigi.Fanfani e Moro, in un incontro fra tutti i capicorrente improvvisato a Palazzo Giustiniani, di cui il primo disponeva come presidente del Senato, decisero il ritorno della Dc al centrosinistra. E prescrissero a Forlani, pur fuori stagione, la Quaresima alla quale ogni buon cristiano deve essere pronto in attesa della Resurrezione, ricordò perfidamente l'aretino, che stava per tornare segretario del partito. Fu in quel congresso che De Mita pronunciò un discorso di altissima acrobazia, come solo lui sa fare, tra Forlani e Fanfani.Le cose poi andarono per il loro difficile e contrastato verso, tra i postumi politici del referendum favorevole al divorzio, l'avanzata elettorale del Pci guidato da Enrico Berlinguer, il terrorismo, la "solidarietà nazionale" e l'avvento di Craxi sulla scena politica. De Mita dovette attendere il 1982, e i 54 anni di età, per diventare segretario della Dc. E il 1988, e i 60 anni di età, per diventare anche presidente del Consiglio.Con questi ritmi di carriera e di selezione della sua generazione, come volete che De Mita potesse vedere l'altra sera, nello studio televisivo di Enrico Mentana, quella specie di alieno che deve sembrargli Renzi, per quanto figlio di un ex demitiano? Uno che nel 1969, ai tempi del convegno di San Ginesio, protettore degli artisti, non era ancora nato, essendo destinato ad uscire dalla pancia della mamma solo l'11 gennaio del 1975. Uno, inoltre, così "volgare", per i gusti di De Mita, da avergli rimproverato di essere uscito dal Pd nel 2008 solo perché gli era stata rifiutata una candidatura al Senato, dove avrebbe poi tentato inutilmente di arrivare lo stesso candidandosi con l'Udc di Pier Ferdinando Casini. Ed ora, pur di firmare atti e di contare, fa il sindaco della sua Nusco.Di Renzi a De Mita non è piaciuto neppure il quasi paragone tentato fra l'elezione del pur amico Sergio Mattarella al Quirinale, l'anno scorso, da lui voluta anche a costo di rompere il cosiddetto Patto del Nazareno con Silvio Berlusconi, e il "capolavoro" demitiano dell'elezione di Francesco Cossiga nel 1985.Mattarella - gli ha perfidamente ricordato De Mita - fu eletto al quarto scrutinio, quando bastava la maggioranza assoluta dei voti. Cossiga nel 1985, grazie appunto al suo "metodo", come si sarebbe ripetuto solo nel 1999 per Carlo Azeglio Ciampi su iniziativa dell'allora segretario del Pds Walter Veltroni, al primo e unico scrutinio, quando la Costituzione richiede la ben più larga maggioranza dei due terzi dei voti delle Camere riunite e dei delegati regionali.Grande Ciriaco - bisogna riconoscerlo-quando, al netto di tutti i suoi errori e delle sue impuntature, dei suoi "ragionamendi" e delle sue astrattezze, come quella di definire la politica "la scienza dell'organizzazione dello Stato", diversamente dalla scienza del potere come forse troppo pragmaticamente la considera Renzi, si mette in testa di essere perfido. E di segnare anche lui il suo punto quando gioca.