Non ricordo bene se fu nel 1966 o nel 1967. Ma quando il vice capo ufficio stampa Gastone Favero mi accompagnò nell'ufficio di Aldo Moro, a Palazzo Chigi, per farci scambiare gli auguri di Natale e Capodanno, mi feci dell'allora presidente del Consiglio, per quanto fosse stato il primo a formare un governo "organico" di centro sinistra, con la partecipazione diretta dei socialisti, l'idea di un uomo non moderato ma moderatissimo. Un uomo che non avrei mai potuto immaginare fosse destinato a diventare in pochissimi anni, esattamente nel 1968, l'uomo della Dc più a sinistra. Più ancora delle stesse correnti di sinistra dello scudo crociato. Che erano due: una chiamata "Base", capeggiata al Nord da Giovanni Marcora, "Albertino" per gli amici, al centro da Giovanni Galloni e al sud da Ciriaco De Mita, e l'altra chiamata "Forze Nuove", guidata con polso fermissimo dall'ex sindacalista Carlo Donat-Cattin.Una era la sinistra politica, che si distingueva per le alleanze che perseguiva all'esterno della Dc. L'altra era la sinistra sociale, che si caratterizzava per le leggi che perseguiva. Delle due, quella che sarebbe andata più d'accordo con Moro sarebbe stata la seconda, "Forze Nuove", a tal punto che il suo leader, tentato dopo il 1968, l'anno della contestazione giovanile, di uscire dalla Dc, ne fu trattenuto solo da Moro.Quando fu rovesciato dalla guida del governo, dopo le elezioni politiche del 1968, gli amici di corrente di Moro usarono come argomento contro di lui non più la presunta arrendevolezza ai socialisti ma il rifiuto di costoro, usciti delusi dalle urne due anni dopo l'unificazione con i socialdemocratici, di continuare a collaborare con lui. «Non fatemi morire con Moro», disse Pietro Nenni, che gli era stato per quattro anni a Palazzo Chigi vice presidente del Consiglio.Per recuperare l'alleanza col Psi, Rumor offrì disinvoltamente tutto ciò che a Moro non era stato permesso di concedere: un centro-sinistra "più incisivo e coraggioso", non più "delimitato a sinistra", quindi aperto ai contributi dell'opposizione comunista, un'inchiesta sui servizi segreti sospettati di avere tentato un colpo di Stato quattro anni prima, la pensione sociale ai meno abbienti e l'avvio di una legge per lo statuto dei diritti dei lavoratori.Il cambiamentoA quel punto, da moderatissimo come lo avevo lasciato quel giorno nel suo ufficio di presidente del Consiglio, Moro cominciò ad essere diverso. Con la complicità del capo della scorta, gli feci la posta sulla spiaggia di Terracina, dove Moro arrivava vestitissimo sotto l'ombrellone ogni mattina, e cercai di sondarne gli umori in vista del Consiglio Nazionale della Dc che avrebbe dovuto ratificare in autunno la formazione del primo governo "balneare" di Giovanni Leone, formato in attesa che i socialisti decidessero di accettare le offerte di programmi e di posti di Rumor per un successivo Gabinetto di coalizione. L'uomo, prudentissimo, non si lasciò scappare una parola. E io, di ritorno a Roma, mi unii agli altri colleghi, che neppure si erano scomodati ad andare a Terracina, a scrivere pezzi per interpretare il silenzio di Moro. Pensate che tempi.Meno prudente che con me, il povero Moro fu purtroppo, dopo qualche settimana, con Francesco Cossiga. Che gli fu mandato da Paolo Emilio Taviani, leader di una correntina chiamata "dei pontieri", a sondare l'ex presidente del Consiglio. A Cossiga, che dopo meno di dieci anni - pensate anche questo - sarebbe stato il ministro dell'Interno nominato dallo stesso Moro nel suo penultimo governo e chiamato poi a gestirne il tragico sequestro, l'ex presidente del Consiglio rivelò che sarebbe uscito dalla corrente dorotea e ne avrebbe messa su una tutta sua. Taviani disinvoltamente avvertì Rumor della cosa e si offrì a sostituire Moro nella maggioranza di partito.D'accordo anche con i "basisti" e con Amintore Fanfani, l'altro "cavallo di razza" della Dc, come diceva Carlo Donat-Cattin, i dorotei misero Moro nell'angolo, cioè in minoranza. Ma a Moro bastarono due paroline - "strategia dell'attenzione" verso l'opposizione comunista, sull'onda delle contestazioni di quel 1968, che fu anche l'anno dell'invasione sovietica della Cecoslovacchia, da cui il Pci, diversamente dai fatti ungheresi del 1956, ebbe la forza di dissentire - per spiazzare i suoi avversari e riaprire tutti i giochi, interni ed esterni alla Dc. Per i dorotei non ci fu più pace. E neppure per i socialisti, che si sentirono scavalcati.I nemici interni Scambiato per uno di loro, capace cioè di tutto per conservare un posto o guadagnarne un altro, gli avversari interni di partito e i giornali fiancheggiatori accusarono Moro di corteggiare i comunisti per ottenerne l'appoggio, alla fine del 1971, nell'elezione parlamentare del successore di Giuseppe Saragat al Quirinale. Di un'intesa fra Dc e Pci si parlava allora come della "Repubblica conciliare", come la chiamò l'allora direttore del Corriere della Sera Giovanni Spadolini, che poi sarebbe diventato un grande estimatore di Moro. Ma allora apparve rivoluzionario anche un voto da lui espresso nella competente commissione della Camera a favore di una proposta comunista di equiparare ad una promozione, negli esami di Stato, la parità di voti. «Ma questo - mi disse, sconsolato - è un elementare principio applicato già nel codice penale».Quando si arrivò al momento delle candidature al Quirinale la Dc mise in corsa Fanfani, che si era astutamente piazzato in una postazione privilegiata di partenza come la Presidenza del Senato. Ma Fanfani, per quanto ostinato a rimanere in gara anche dopo numerose votazioni a vuoto, dovette alla fine rinunciare. E il segretario ancora fanfaniano della Dc, Arnaldo Forlani, si presentò ai gruppi parlamentari per sostenere la legittimità di una candidatura, a quel punto, di Moro, «già segretario del partito, già presidente del Consiglio e ora ministro degli Esteri per considerarlo ben in grado di fare il presidente della Repubblica». «Traditore», gli gridò un fanfaniano all'uscita dalla sala, dove si era però deciso di non votare subito per il cambio di cavallo. All'indomani mattina i "grandi elettori" della Dc furono chiamati a scegliere, a scrutinio naturalmente segreto, tra Moro e Giovanni Leone, proposto quest'ultimo dai dorotei e fanfaniani con l'assicurazione che avrebbero votato per lui anche socialdemocratici, repubblicani e liberali. I socialisti avevano invece candidato Pietro Nenni.La candidatura di Leone, presidente della Camera e defilato nel panorama correntizio della Dc, nacque in una notte per evitare che i comunisti risultassero decisivi nell'elezione di Moro. Eppure Giorgio Amendola aveva raccontato ai giornalisti a Montecitorio: «Tutti sono venuti a chiederci i voti, a cominciare da Fanfani, fuorchè l'unico al quale li daremmo: Moro». Che infatti se ne stette sulle sue, chiuso nell'ufficio del funzionario di Montecitorio Tullio Ancora, del quale dicevamo tutti nella Stampa Parlamentare che a furia di frequentare Moro ne avesse preso un ciuffo bianco fra i capelli, sulla fronte. Inutilmente l'amico Carlo Donat-Cattin lo incitava a farsi votare senza essere il candidato della Dc perché «per fare i figli bisogna fottere».Per farvi capire che idea avesse invece Moro dei rapporti con il proprio partito, voglio raccontarvi la mattina in cui doveva svolgersi una nuova votazione nell'aula di Montecitorio su Leone, la vigilia di Natale. Io andai a prendere a casa, con la mia macchina, un amico deputato moroteo, Nicola Lettieri. Che, prendendo un caffè con me, mi raccontò di non avere votato il giorno prima per Leone, non condividendo la logica con la quale era stato scelto, peraltro prevalendo nei gruppi parlamentari con meno di cinque voti di scarto su Moro, e non lo avrebbe votato neppure quel giorno.Come se ci stesse ascoltando da casa sua, peraltro non molto distante da noi, che eravamo vicino a Ponte Milvio, mentre lui abitava vicino alla sovrastante Camilluccia, arrivò a Lettieri una telefonata da Moro in persona, analoga ad altre -poi seppi - fatte ad amici tentati dalla dissidenza. «Si vota Leone e basta», intimò il ministro degli Esteri.In effetti Leone quella mattina fu eletto, ma a stento. E i missini si vantarono di essere stati determinanti con i loro voti favorevoli. Annuncio che fu creduto e deplorato dal moroteo Benigno Zaccagnini con una dichiarazione contro la quale Leone protestò con una lettera inviata al giornale ufficiale del partito, Il Popolo.Fu proprio Moro sei anni dopo, quando cominciò una campagna scandalistica contro Leone, destinata a farlo dimettere sei mesi prima della scadenza del mandato, a prendere le difese del capo dello Stato. Le dimissioni sopraggiunsero, su richiesta del Pci e della Dc, solo dopo la tragica morte di Moro, per mano delle Brigate rosse. Che lo sequestrarono il 16 marzo 1978, fra il sangue della scorta a poca distanza da casa, mentre si recava a Montecitorio per la presentazione del governo monocolore democristiano di Giulio Andreotti, sul cui programma egli aveva condotto, come presidente del suo partito, le trattative con Enrico Berlinguer per ottenere il voto di fiducia dei comunisti. Erano gli anni della cosiddetta "solidarietà nazionale", cominciati nel 1976 con l'astensione o "non sfiducia" del Pci a quello stesso governo.LeoneAd Aldo Moro, una volta rapito, Leone fu uno dei pochi a tendere davvero la mano raccogliendone gli appelli alla salvezza, a dispetto della linea della fermezza adottata dal governo e dalla maggioranza con la sola eccezione dei socialisti di Bettino Craxi. Fu proprio Leone, in particolare, a predisporre la grazia per Paola Besuschio, che era nella lista dei 13 detenuti con i quali i terroristi avevano reclamato lo scambio con l'ostaggio.E fu Amintore Fanfani, l'altro "cavallo di razza" della Dc, antagonista di Moro in tanti passaggi della storia del partito, l'unico ad offrire una copertura politica a Leone con un discorso alla direzione dello scudo crociato che aveva appena cominciato a pronunciare, la mattina del 9 maggio, quando arrivò la notizia del tragico epilogo del sequestro.I terroristi, informati con sospetta e "inquietante" tempestività, come vent'anni dopo l'ormai ex presidente della Repubblica mi dichiarò in una intervista per Il Foglio, precedettero Leone e Fanfani ammazzando Moro nel bagagliaio di un'auto custodita nella palazzina di via Montalcini dove l'ostaggio era stato rinchiuso e "processato", e poi parcheggiata in via Caetani, prescelta perché a mezza strada fra le sedi nazionali della Dc e del Pci.Con Moro - che il 18 novembre 1977 a Benevento aveva descritto i rapporti fra comunisti e democristiani dicendo: «Quello che voi siete, noi abbiamo contribuito a farvi essere e quello che noi siamo voi avete contribuito a farci essere» - la Repubblica perse la sua anima. Mai un delitto fu così diabolicamente centrato per attentare alla democrazia.