La parola "presunto" è quella che più frequentemente leggiamo negli articoli di cronaca giudiziaria e che, quasi ossessivamente, ascoltiamo, nel corso dei telegiornali e dei giornali radio. A volte anche le parole come le monete si "svalutano". Ma, nel caso della parola "presunto", crediamo non si tratti di una "svalutazione", ma di una parola che non è mai stata spesa e intesa nel suo vero e fondamentale significato. Un significato che si risolve in fondo, in queste poche essenziali domande: e se il cittadino indiano Ram Lubhaya fosse innocente? E se i magistrati avessero ritualmente applicato una legge giusta? E se non fossero ravvisabili, né il reato di sequestro di persona, aggravato dalla minore età del rapito, né quello di sottrazione di persona incapace? E se questi illeciti non fossero ravvisabili, né sotto la forma del reato consumato, né sotto la forma del tentativo? E se non vi fossero state ragioni di cautela per applicare la custodia in carcere?Pare che la parola "presunto" abbia "corso", nel nostro Paese, con un senso opposto a quello che il buon senso gli dovrebbe attribuire (di presunto innocente sino a giudizio definitivo): "presunto rapitore" sta a significare, infatti, che lo "presumiamo certamente colpevole" di avere commesso questo odioso reato, presumendo, di conseguenza, scandaloso il comportamento dei magistrati che non hanno gettato il "presunto rapitore" nel fondo di un carcere "gettando via la chiave". Presumendo, infine, che, se i magistrati avessero mai applicato correttamente la legge (come più volte dagli stessi affermato), si tratterebbe certamente di una legge vergognosa, tutta da rifare. Così, pare, la intendano alcuni la parola "presunto". Pronti magari ad invocare la "presunzione di innocenza" come un gadget personale.Non vi è dubbio che la stessa magistratura, che ora protesta per gli "inaccettabili attacchi mediatici" e che con il Vicepresidente del CSM chiede la fine della "spettacolarizzazione dei processi", abbia avuto un ruolo assai rilevante nello spostare l'asse del processo sul fronte mediatico della ricerca del consenso e nel favorire il "deragliamento" del significato di questa parola, che non è solo una fondamentale regola del processo, ma un principio costituzionale che, come tale, dovrebbe impregnare l'intera cultura della nostra società.Capita tuttavia a volte, come in questo caso, che la magistratura resti vittima della sua stessa propaganda giustizialista, che sia messa sotto accusa sol perché avrebbe applicato la legge, per aver dunque fatto il proprio dovere. Non vi è dubbio che quando in uno stato democratico ed in una società "aperta" i magistrati sbagliano debbano essere consentite anche le critiche più aspre. Ma il problema è un altro. Ed è che dobbiamo tutti convincere una opinione pubblica oramai matura, che non solo carcerando e condannando, ma anche garantendo la libertà degli "ultimi" i magistrati tutelano le nostre garanzie, i nostri diritti e le nostre libertà.Ed è per questo che occorrerebbe piuttosto vergognarci quando vediamo quanti innocenti finiscono in carcere scontando lunghissime ingiuste custodie cautelari, e dovremmo conservare la nostra indignazione quando vediamo che lo Stato è costretto a pagare milioni di euro di indennizzi per le ingiuste detenzioni o per le riparazioni di errori giudiziari che hanno distrutto intere esistenze.Se, anche qui, un magistrato ha sbagliato saranno gli organi competenti a dirlo. Allo stato nessuno è in possesso di elementi di fatto sufficienti per anticipare un giudizio. Ma una cosa è certa: questa vicenda dovrebbe insegnarci, oltre al significato (vero) della parola "presunto", anche altre cose. Che se non è certo irrituale che il Ministro Orlando intenda accertare eventuali responsabilità nell'aver lasciato un fermato in libertà, non capita, tuttavia, di osservare analoghe sollecitudini quando la libertà di un cittadino viene invece ingiustamente violata. Che non bisognerebbe speculare sullo spavento e sui sentimenti di un genitore per chiedere la "reintroduzione" di un "reato di clandestinità" che è già inutilmente presente nella nostra legislazione o chissà quali altre riforme autoritarie dei nostri codici. Che non abbiamo, infine, bisogno di un processo penale che si nutre di casi esemplari e di capri espiatori, né di silenzi per le molte sicure ingiustizie, e di improvvisi clamori per presunte indecenze processuali, perché la giustizia non dovrebbe mai essere amministrata "a furor di popolo", sotto il peso di una indebita spinta emotiva.Beniamino Migliucci e Francesco Petrelli sono rispettivamente Presidente e Segretario dell'Unione delle Camere Penali Italiane