Proprio nel primo capitolo di Storia della Colonna Infame, a pag. 15 dell’edizione economia Feltrinelli, dunque proprio in esordio, si legge:“Felici que’ giurati davanti a cui tali imputati comparvero (che più di una volta la moltitudine eseguì da se’ la sua propria sentenza); felici que’ giurati, se entrarono nella loro sala ben persuasi che non sapevano ancor nulla, se non rimase loro nella mente alcun rimbombo di quel rumore di fuori, se pensarono, non che essi erano il paese, come si dice spesso con un traslato di quelli che fanno perder di vista il carattere proprio ed essenziale della cosa, con un traslato sinistro e crudele nei casi in cui il paese si sia già formato un giudizio senza averne i mezzi; ma ch’eran uomini esclusivamente investiti della sacra, necessaria, terribile autorità di decidere se altri uomini siano colpevoli o innocenti ”.In una pausa di uno dei tre grandi processi per i fatti del G8 a Genova nel 2001, quello contro 25 supposti black bloc che si erano trovati in piazza a manifestare contro i grandi della terra per un altro mondo possibile, il presidente del tribunale, un austero giudice di lunga esperienza, ebbe a dirmi: “E’ dal 2001 che cerco di non vedere trasmissioni TV e leggere articoli su quanto avvenuto a Genova in quei giorni prevedendo che forse un giorno avrei dovuto condurre un processo su quei fatti e non volevo arrivarci con idee preconcette”. Eravamo, se non erro, nel 2007: per 6 anni quel presidente si era astenuto dal fatto più importante avvenuto nella sua città apposta per mantenere la mente sgombra e non essere influenzato. Ammirevole, direi. Ed infatti la sentenza che il collegio da lui presieduto emise riconobbe che i primi a comportarsi illegittimamente non furono i dimostranti, come tutti i media fino allora avevano detto, bensì i carabinieri e così mandarono assolti, o quasi, 15 degli imputati; gli altri 10 furono condannati a pene severissime.Ma questo non sembra essere lo scrupolo e il comportamento della maggioranza dei giudici. Anche perché non deve essere facile sottrarsi all’assedio mediatico cui si viene sottoposti – tutti – in occasione di importanti processi. E i media, si sa, tendono sempre a costruire e imporre una loro versione del fatto criminoso. Per lo più in chiave colpevolista, vale a dire in danno dell’accusato. Così si costruisce un profilo criminale o comunque colpevole del soggetto imputato, attraverso mezzi talora smaccati (i modellini della casa di Cogne di Bruno Vespa), talaltra più subdoli e proprio per questo più pericolosi (la mozione degli affetti e l’insistenza nell’adesione al punto di vista della vittima di Chi l’ha visto? e altre trasmissioni simili).Non si creda che si tratti di fatti nuovi: certo l’espandersi dei media è fenomeno, per vastità e insistenza, tipico della nostra era. Ma Foucault, per esempio, in quel meraviglioso libro (non solo suo, anche dei suoi discepoli) che è Io, Pierre Riviere narra di come il processo per l’assassinio del padre di Riviere venisse seguito attraverso volantini che, aggiornati ad horas e prontamente stampati, venissero distribuiti nelle fiere di città e paesini e andassero a ruba: prima ancora che attraverso i giornali. Insomma, una capillarità di penetrazione nel pensiero collettivo notevole, e sempre, già allora, in chiave colpevolista.Del resto, assistere ai processi, specialmente a quelli d’assise, era un passatempo usuale, almeno fino a qualche generazione fa. E i processi stessi erano presi d’assalto da giornalisti di testate maggiori e minori: facevano vendere e dunque si abbondava nei particolari più raccapriccianti e, soprattutto, si insisteva sulle rappresentazioni più truci dell’imputato. Non essendoci ancora la fotografia venne in auge una categoria di disegnatori specializzati - court draughtsmen – che supplivano alla bisogna. E questi disegnatori tuttora, anche in epoca di foto digitali, prosperano nelle corti britanniche, dove è vietato scattare foto.La pubblicità attorno e durante il processo, però, è cosa diversa (laddove può essere distinta, e non sempre è facile farlo) dal flusso mediatico intorno al caso criminale, prima, durante e dopo il processo. La pubblicità del processo è conquista di civiltà e garanzia, sia pure relativa, di rispetto delle regole: basta vedere una trasmissione di Un Giorno in Pretura per accorgersi, se si è un po’ esperti di aule giudiziarie, che i giudici tendono a comportarsi più correttamente dell’usuale. E oggi pubblicità dell’udienza significa ripresa video della medesima e sua messa a disposizione del pubblico. Tant’è che diffidiamo di quei presidenti che, pur avendo dato le parti il proprio consenso alle riprese, motu proprio le vietano con le scuse più disparate.Dunque non è a questo tipo di pubblicità che alludiamo nel condannare gli eccessi mediatici. Quelli che più ci preoccupano sono quelli che precedono il processo e che tendono ad anticipare la ricostruzione del fatti e a convincerci della colpevolezza o dell’innocenza (ma in genere si insiste soprattutto sulla prima) del reo. Rispetto a questa è ben difficile che il giudice possa sottrarsi ad una qualche influenza. Quando poi – ed il caso della Colonna Infame è solo uno dei tanti – per l’effetto dei media, o anche solo del clamore del popolo, vi è una richiesta chiara ed esplicita di condanna, allora l’effetto paventato dal Manzoni è terribilmente evidente: il giudice tenderà ad allinearsi con la richiesta di condanna, visto che il popolo, di solito, reclama la forca. E ci vuole coraggio per un giudice già condizionato sottrarsi a queste spinte: come nel caso del povero Mora, ci dice Manzoni, che nemmeno l’esecuzione della sentenza “si poteva sospendere, perché il popolo esclamava” e reclamava appunto il supplizio.In Italia si conosce bene il fenomeno, ma non si è mai fatto nulla per arginarlo: nemmeno un codice di autoregolamentazione della “cronaca nera”: quasi una contraddizione in termini, peraltro; ma qualcosa si potrebbe fare.Altri ordinamenti, più consapevoli dei rischi, ma certamente poco proclivi a mettere la mordacchia ai media, hanno pensato e praticano un altro sistema: l’individuazione dei giudici più sgombri possibile da pregiudizi, oppure – ed è questa la soluzione vicaria più praticata perché più facilmente praticabile – il bilanciamento fra i pregiudizi. Alludo ai processi con la giuria popolare del sistema americano. La scelta dei componenti la giuria, nei casi di maggior rilievo, ma anche nei meno importanti (la giuria non è obbligatoria solo negli omicidi di primo grado, ma anche nei processi di medio calibro), si spende spesso più tempo a scegliere i giurati che a fare il processo. Di solito la giuria è composta di 14 persone e le due parti (procuratore e difensore) possono rifiutarne fino a 7, dopo di che dovrebbero accettare quelli che seguono. Sicchè, spesso con l’ausilio di esperti psicologi, sociologi o criminologi, e ponendo domande molto precise, si cerca di capire se nutrono pregiudizi ostili alla propria parte. Una delle domande più ricorrenti, fin troppo facile, è quella se si sono già interessati al caso attraverso le TV o i giornali e, di conseguenza, si cerca di arguire quale idea possano essersi fatti e dunque rigettarlo in quanto giurato. Insomma, si tenta di evitare che i potentissimi media abbiano già influenzato il giudice. Cosa tutt’altro che facile, naturalmente, ma almeno è qualcosa.