Basta ripercorrerne la vita, a cent’anno dalla sua nascita, per percepire in Giacomo Mancini un leader di prima grandezza nella storia del socialismo italiano. È un percorso, che già solo attraverso le sue vicende e i ruoli che ha ricoperto, offre testimonianze sufficienti di tale grandezza. Ma c’è di più, c’è un filo rosso che congiunge queste vicende ed è la nozione di autonomia socialista che traspare da tutte le sue esperienze e che, ce ne accorgiamo forse più oggi di allora, fu un patrimonio al quale non si attinse come avrebbe meritato e che costituisce, a mio avviso, la ragione prima per cui ricordarlo.La vita di Giacomo Mancini attraversa tutte le tappe che segnano le grandi figure politiche del suo tempo. Laureatosi a Torino in Giurisprudenza nell’anno- questo mi ha colpito- in cui io a Torino nascevo, il 1938, dopo l’8 settembre 1943 scende a Roma in attesa di potersi congiungere alla famiglia e lì si unisce alla nascente resistenza romana sotto la guida di Giuliano Vassalli, che aveva avuto dallo stesso Nenni il compito di organizzare i socialisti. Questo è una specie di marchio di fabbrica per i giovani di qualità di quella stagione. E lui se lo conquista, divenendo responsabile di una zona di Roma nella quale mette a repentaglio la sua stessa vita, come tanti altri giovani che si offrono alle stesse esperienze.Rientrato poi in Calabria trova naturalmente il suo posto nelle lotte contadine, condotte unitariamente da socialisti e comunisti. Erano lotte storiche, nelle quali prendevano corpo insieme la rabbia e le rivendicazioni più tradizionali dei diseredati del Sud. Ma presto, davanti alle dimensioni dell’esodo dalle campagne, si rende conto che quelle lotte rispondono, sì, a un fine di ineludibile giustizia, ma non è dal loro esito che dipenderà lo sviluppo del Sud. E inizia un percorso diverso, suggerito non dall’ideologia, ma dalla realtà economica e sociale che si trovava davanti. Non era l’alleanza fra operai del Nord e contadini del Sud che avrebbe riscattato il Mezzogiorno. Era una nuova politica economica, il cui perseguimento non lo mise soltanto in polemica con le vecchie impostazioni unitarie, ma anche con la politica clientelare della vecchia maggioranza, che nel frattempo, nella sua Cosenza e non solo, si identificava con gli interessi della rendita edilizia.Come scrive Antonio Landolfi nella biografia del suo leader, al quale fu sempre e disinteressatamente vicino, Mancini si trovò a lottare contro due immobilismi, affermando uno “stile politico” – altri ha scritto- non ideologizzato, ma calibrato volta a volta su obiettivi specifici, perseguiti con caparbia attenzione ai rapporti di forza.Eccolo il filo rosso che comincia a dipanarsi. Notate, non attraverso teorizzazioni (Mancini non appartiene alla categoria dei socialisti scrittori), ma attraverso l’elaborazione e la prassi politica al confronto con il mutamento sociale. Questo, fra l’altro, gli permetterà di sviluppare una sua distinta identità, e una distinta identità della sua prospettiva politica, senza mai né rompere i rapporti con le forze politiche circostanti né piegare le sue ragioni alle “superiori esigenze” di queste. Abbandona l’unità di sinistra, è con Nenni fra i fondatori dell’autonomia, ma continua ad avere rapporti, anche amichevoli, con esponenti del PCI, del che ci ha dato oggi una vivida testimonianza lo stesso Presidente Napolitano, con il suo bel messaggio inviato al nostro incontro. E lo stesso atteggiamento avrà Mancini quando inizierà la collaborazione con la DC: sarà politicamente leale, ma non farà sconti.In questa chiave possiamo leggere l’uomo di governo. Il ministro della Sanità, che impose ai medici la vaccinazione antipolio di massa e alle industrie farmaceutiche, che per farlo avevano accumulato ingenti scorte del vaccino Salk, quello che riteneva più efficace, il Sabin. Ma sappiamo tutti che la grande stagione di Giacomo al governo è quella ai Lavori Pubblici. Davanti al sacco di Agrigento, prima costituì la Commissione presieduta da Michele Martuscelli, poi fece quella legge ponte, che ha cambiato la storia d’Italia ripristinando un governo del territorio, che era venuto a mancare per decenni a beneficio della rendita e della speculazione.Sono andato a rileggerla in questi giorni la relazione finale della Commissione Martuscelli e ho trovato in essa parole che commuovono oggi, come commossero allora. Gli italiani non se lo aspettavano che un uomo di governo e i suoi collaboratori additassero come traditori coloro che violando non solo la legge, ma un loro dovere etico e civile nei confronti degli altri, distruggevano un patrimonio di tutti in nome dei propri interessi privati. Erano cose che avevano sentito dire nei convegni dell’Eliseo, nelle filippiche contro la razza padrona. Cose che si dicono e basta e che, con Mancini, divennero invece pratica di governo. Mi sbaglierò, ma mi ha sempre colpito che fu dopo la svolta così impressa alla politica nazionale che nella Democrazia Cristiana presero a pesare i giovani economisti cattolici, da Andreatta a Mazzocchi, contrari al conservatorismo difensivo che allora prevaleva nel loro partito.Non guardò in faccia a nessuno Giacomo e mise alle corde quel partito della rendita che aveva cominciato a combattere a Cosenza ed era diventato il tossico più pesante nel corpo stesso della DC. Negli stessi anni – merita notarlo- Nenni non riuscì a prosciugare le sabbie mobili della Federconsorzi. L’autonomia socialista si fermò qui davanti alle ragioni superiori del maggiore alleato, che riuscirono così a prevalere. Non riuscirono a farlo invece con Mancini, che affermò così, nel concreto della politica, la sua visione dell’autonomia, un’autonomia più forte delle ragioni superiori degli altri.Diverso, ovviamente, il ruolo che aveva e che avrebbe esercitato da uomo di partito. Qui, tanto da collaboratore di Morandi nei suoi primi anni, quanto da segretario nazionale nel ’70, fa valere le ragioni dell’organizzazione e quelle della vitalità da mantenere nelle strutture periferiche, per evitare rapporti politici costruiti solo al vertice e trasmessi a terminali non più interattivi. Ricordo ancora la conferenza di organizzazione che facemmo nel 1975 a Firenze. Lui non era più segretario nazionale, ma fu il suo discorso a segnare la conferenza e fu una bacchettata a tutti noi. Il nostro bersaglio era il rischio di sclerosi burocratica delle federazioni, un rischio vero, ma lui ci ammonì. Attenti a non distruggerlo il partito, perché, dopo, sarete esposti ai quattro venti. E non avrete più il corpo che da’ consistenza alla vostra autonomia.Riflettiamoci. Negli ultimi dieci anni, le analisi più ricorrenti ci dicono certo che i partiti sono finiti male. Ma ci spiegano anche la funzione essenziale alla quale avevano assolto, come veicoli attraverso i quali i cittadini potevano fare ciò che la Costituzione vorrebbe: concorrere – com’è scritto nell’art. 49- alla determinazione della politica nazionale. I partiti, indicati dallo stesso art. 49 come strumenti a tal fine, non sono più quei veicoli. Ma senza di loro i cittadini sono diventati sempre più spettatori, tifosi, opinione pubblica passiva, che solo per piccoli segmenti riesca ad attivarsi attraverso la rete. Giacomo di questo ci avvertiva, oltre trent’anni fa. E reagiva, razionalmente e d’istinto, al possibile avvento di quella che oggi chiamiamo democrazia plebiscitaria.Non più al governo e non più al vertice del partito, continuò a dare sostanza all’autonomia, così come aveva sempre fatto. In prima fila sui temi del rinnovamento civile e sociale, a partire dal divorzio, e non meno su quelli del garantismo, anche a favore di ciò che si muoveva all’estrema sinistra e sfidando gli equivoci che si sarebbero alimentati con l’avvento del terrorismo. Sostenne inoltre i socialisti greci vittime dei colonnelli e divenne per questo un loro eroe, che come tale gli studenti di quel paese avrebbero ricordato alla sua morte.All’insegna di questa sua coerente visione dell’autonomia favorì l’ascesa di Bettino Craxi, che già aveva voluto come vicesegretario nel ’70, con Mosca e Codignola. Ma presto si trovò in polemica con il verticismo impresso al partito e con l’asse troppo stretto con la DC. Per essere se stesso tornò qui e visse i suoi ultimi anni da sindaco di Cosenza, riaffermando, in questa sua ultima esperienza, due tratti essenziali di tutta la sua vicenda politica: il primo era la qualità del suo rapporto con le altre forze politiche, un rapporto che poteva essere di collaborazione, ma non di sudditanza, ovvero rapporto tra avversari, non tra nemici. Notate a questo riguardo che, prima sostenuto da liste civiche, vinse poi nel 1997 con il sostegno di tutto l’Ulivo. Il secondo tratto era quello del rifiuto del verticismo in nome di una relazione con i cittadini, che riuscisse ad essere diretta e bi-univoca. È questa la relazione che volle vivere nell’esperienza ad essa più congeniale, quella del sindaco, e della quale invece non vedeva più traccia nella politica nazionale.Si conclude qui una grande storia, che è insieme la storia di un leader, ma è anche quella, fortemente vissuta e coerentemente fatta valere, di una visione a 360 gradi dell’autonomia socialista. Tale fu, per lui, non solo il nesso socialismo-libertà, che ne fu certo la irrinunciabile matrice sul terreno del duello a sinistra e che fu da lui interpretato e sostenuto, pagando anche prezzi che non doveva pagare. Fu, nondimeno, la distanza dal moderatismo conservatore e dagli interessi e le rendite che vi si nascondevano, così da mantenere sempre tesa, per quanto lo riguardava, la corda della collaborazione di governo.Letta a distanza, e letta nel suo insieme, l’autonomia di Mancini appare nutrita da quella componente libertaria che il Psi doveva alla commistione pre-natale con gli anarchici e che, negli anni, lo avrebbe reso protagonista di tutte le battaglie di libertà. Con una vicinanza, in questo, più ai radicali, e talora alla sinistra estrema, che non alla sinistra tradizionale. E con un legame a quella New Left secondo Wright Mills, che orientò i giovani dei tardi anni ’60 a lottare più contro l’autoritarismo nella società e in tutti i suoi corpi intermedi che non nei rapporti di fabbrica.È importante ricordarlo. Il Psi perse alla fine la sua battaglia, non sullo storico terreno del duello a sinistra. Lì vinse, anzi stravinse, se è vero che alla fine il Pci, per non essere travolto dalla fine del comunismo, dovette assimilarsi ai partiti socialisti europei e unirsi alla loro famiglia politica. Il Psi perse sull’altro terreno, quello dell’autonomia dalla Dc, quello della capacità di mantenere una identità distinta e distinguibile da quella democristiana e non essere trascinato dal suo tramonto. Diventò, insieme alla Dc, prigioniero del palazzo, partecipe più delle sue vicende che di quelle della società.Va detto che non capitò così né al giovane o al maturo Mancini, che aveva sempre rifiutato la verticalizzazione del partito e la identificazione con altri, né al vecchio Mancini, che si gettò su un mestiere, quello di sindaco, che lo legava direttamente ai cittadini.Di questo tutti devono dargli atto. Io sono qui per farlo.