Il 27 aprile ricorreva l’anniversario della morte di Antonio Gramsci (22-1-1891/27-4-1937). Una data dimenticata, tanto che un quotidiano ha annotato: «Per la prima volta dopo 79 anni dalla sua scomparsa il Partito Democratico non gli ha reso omaggio. Nessuna corona di fiori, nessuna cerimonia, nessun ricordo lasciato sulla sua tomba».La cosa apparirà, ai più giovani o ai distratti, irrilevante: Gramsci, chi era costui? Ma chi ricorda gli anni che seguirono la pubblicazione dei Quaderni del Carcere non potrà non avvertire come l’odierna dimenticanza – non casuale, con tutta evidenza - è quanto meno irriconoscente verso il pensatore e uomo politico che nel dopoguerra più fortemente e durevolmente ha connotato l’azione del Partito Comunista, riscuotendo eccezionale attenzione e interesse nel mondo della cultura e della politica, non solo italiano.I Quaderni del carcere sono la raccolta dei testi, degli appunti, delle note che Antonio Gramsci ebbe la possibilità di scrivere a partire dal febbraio del 1929 e fino al 1935, durante la sua prigionia nelle carceri fasciste. Erano normali quaderni, ne sono stati recuperati 33 ma c’è chi dice che fossero in realtà 34 e che uno sia stato eliminato da Palmiro Togliatti perché contenente passi contrastanti con la linea del Pci o memori della divergenza che separò i due in un momento topico del movimento comunista europeo.A lungo si è detto che Gramsci andrebbe collocato tra i massimi pensatori del secolo, degno di essere affiancato a Machiavelli per la profondità delle ricerche etico-politiche (ma anche letterarie e latamente culturali). Comperai e lessi avidamente i quattro sobri ed eleganti volumi apparsi, per la casa editrice Einaudi, tra il 1948 e il 1951. In questa edizione i testi erano organizzati secondo un ordine tematico, nel 1975 ne uscì, curata da Valentino Gerratana, una edizione critica, rinnovata e con un’accurata ricostruzione cronologica della loro storia.La vastità degli interessi coltivati da Gramsci è davvero impressionante – politica, storia, letteratura, filologia - sopratutto avvertendo che i suoi studi potevano avvalersi di una bibliografia molto ristretta, con i libri previamente sottoposti alla censura carceraria. Il nucleo centrale del suo pensiero fu l’analisi del concetto di “egemonia”: «Un gruppo sociale è dominante dei gruppi avversari che tende a liquidare o a sottomettere anche con la forza armata, ed è dirigente dei gruppi affini e alleati. Un gruppo sociale può e anzi deve essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo (è questa una delle condizioni principali per la stessa conquista del potere); dopo, quando esercita il potere ed anche se lo tiene fortemente in pugno, diventa dominante ma deve continuare ad essere anche dirigente».Vi è distinzione fra direzione – egemonia intellettuale e morale – e dominio, che è esercizio della forza repressiva. Per esercitare l’egemonia occorre che il “gruppo sociale” sia però capace di realizzare una forte alleanza con altre forze, imponendo la propria concezione del mondo. L’esercizio rivoluzionario dell’egemonia avviene inizialmente a livello della sovrastruttura – in senso marxiano, ossia politico, solo culturale, ideale, morale – ma poi si diffonde nella società nel suo complesso investendo anche la struttura economica, cioè il «blocco storico», che in Gramsci indica l’insieme della struttura e della sovrastruttura, ossia i rapporti sociali di produzione ma anche i loro riflessi ideologici. Si intende che per Gramsci il “gruppo sociale” cui affidare il compito rivoluzionario dell’egemonia sulla società - a partire da quella italiana - doveva essere il proletariato, la classe operaia/contadina.Bersaglio di una polemica - accanita ma non volgare, dotta e di altissimo livello - fu, per Gramsci, Benedetto Croce, anche per lui il più autorevole intellettuale dell’epoca. Il borghese Croce, secondo Gramsci, aveva elaborato gli strumenti culturali più raffinati per escludere il movimento operaio e socialista dallo svolgimento della cultura italiana risorgimentale e postrisorgimentale, ponendosi a difesa dell’egemonia culturale che il blocco sociale dominante esercitava nei confronti del movimento operaio italiano. Croce combattè il marxismo negandone la validità nell’elemento decisivo: il riconoscimento del valore scientifico del “plusvalore” - la differenza tra il valore delle merci prodotte dal lavoratore e il valore della forza-lavoro del lavoratore stesso - che, nell’analisi marxiana è invece centrale. Secondo Gramsci, per lo storicismo crociano la storia è storia dello Spirito: seguendo il Vico, la realtà è storia e tutto ciò che esiste è necessariamente storico ma - conformemente alla natura idealistica della sua filosofia - la storia non è la vicenda concreta delle nazioni e delle classi. Anche la sua dialettica dei “distinti” è un depotenziamento delle grandi contraddizioni storiche che invece la dialettica hegeliana considerava in tutta la loro drammaticità.Respingendo l’interpretazione del Risorgimento data da Croce, Gramsci insisteva sul concetto di un Risorgimento “tradito” da una borghesia che pavidamente aveva escluso dal processo unitario le classi lavoratrici, operaie e contadine. In questa analisi, Gramsci si allineava sul pensiero di molti altri storici e intellettuali – alla Gobetti, diciamo – ugualmente critici delle vicende risorgimentali e postrisorgimentali, gestite - questa fu l’accusa - da una borghesia intrinsecamente trasformista.Questa complessa concezione, che Gramsci indagò ripercorrendo a fondo la storia politico-sociale italiana, divenne la bandiera, l’arma ideologica con la quale il P. C. I. togliattiano si sforzò di creare le condizioni del suo avvento al potere, cercando di riprodurre quelle che Gramsci aveva indicato come ottimali per conquistare un Risorgimento, una Indipendenza nazionale davvero rivoluzionaria, completamente diversa da quella ottenuta, tra compromessi e repressioni antipopolari, dalla borghesia: l’alleanza cioè tra i contadini del sud e l’operaiato del nord.Su questo schema il P. C. I. riprese in mano e agitò la “questione meridionale”. Il meridionalismo di queste sinistre venne contrastato dalle lucide ricerche di una cultura liberale ancora efficace, di cui si fecero interpreti lo storico Rosario Romeo con i suoi studi sul Risorgimento, ricchi di dati e cifre incontestabili, o la rivista Nord e Sud di Chinchino Compagna. La DC si spaccò tra una sinistra che guardava con simpatia le analisi gramscian-comuniste e un guppo dirigente “moderato”, attento alle ragioni di un liberalismo legato alle tendenze liberali e capitalistiche mondiali prevalenti, anche se attenuato dalle esigenze “sociali” cui la DC era ovviamente attenta.Oggi si torna a parlare, se non proprio di “blocco storico”, di “blocco sociale”. Non c’è, tra i due termini, una sostanziale differenza. I fautori del “blocco sociale” pensano si debba cercare ancora, tra gli strati sociali, quelli che possano coalizzarsi assieme per dare vita a un progetto unitario capace di aspirare alla maggiorazna e quindi al governo.Di blocco sociale parlano molti, in termini più o meno scientifici o accademici, evocando l’una o l’altra soluzione. Vi costruiscono sopra, invece, veri e propri progetti politici soprattuto gli esponenti di una sinistra interna ed esterna al Partito Democratico, quelli che rimproverano a Renzi di puntare sul “partito della nazione”, un partito che non faccia più riferimento alle classi, puntando su altri fattori di unità, non escluso il potere carismatico del capo (di Renzi in persona, diciamo). Ma credo sia sufficiente analizzare con esattezza i caratteri della società italiana (e non solo) per capire che, se non siamo alla vera e propria “società fluida” poco ci manca. Non è un caso se, sulla sponda opposta, vi sono teorici e critici che stanno analizzando la possibilità di un vero e proprio partito che faccia riferimento solo al web, o ai social.Il fondatore del Partito Comunista italiano, l’intellettuale, il filosofo e giornalista riposa nel cimitero acattolico di Roma, tra artisti e poeti. Tra i tanti celebri omaggi tributatigli nel tempo, memorabile e sempre vitale quello di Pier Paolo Pasolini, che gli dedicò il poemetto in versi "Le ceneri di Gramsci".