Quel professore di diritto non ha nulla da insegnare alle giovani toghe in erba e non deve mettere piede nelle sale della Scuola superiore di magistratura. E’ la richiesta, si fa per dire, di Nino di Matteo. Quel Di Matteo, il pm del processo sulla trattativa Stato-Mafia.Il professore in questione, il reietto che va censurato, invece, è Giovanni Fiandaca. Quel Fiandaca, il giurista che ha osato mettere in discussione quel processo. Di più, l’uomo che ha spiegato che in determinate condizioni lo Stato ha il dovere di trattare. Soprattutto quando subisce un attacco feroce e indiscriminato come quello del periodo delle stragi mafiose degli anni ‘90. E proprio per questo Fiandaca non deve avvicinarsi ai futuri magistrati, almeno secondo Di Matteo. Il quale, allievo ingrato, sembra aver dimenticato che fu proprio il vecchio professore di diritto penale a insegnargli i rudimenti della giurisprudenza. A lui e a un altro campione del processo allo Stato, un certo Antonio Ingroia.Ma andiamo con ordine. Non più tardi di una settimana fa gli organizzatori della Scuola superiore della magistratura mandano un invito a Fiandaca e Di Matteo. Quest’ultimo, però, risponde in modo piuttosto piccato e la sua replica fa il giro della procura palermitana: «Una domanda che mi pongo con sempre maggiore insistenza. L’avere espresso giudizi fortemente critici nei confronti dell’impianto accusatorio di processi attualmente in corso nel distretto è forse diventato motivo di ulteriore merito per la scelta di relatori negli eventi di studio organizzati dalla formazione decentrata? », scrive  Di Matteo.Immediata e durissima la replica di Fiandaca: «Siamo davanti a una censura preventiva. Secondo Di Matteo, evidentemente, per essere relatore a un convegno si deve essere d’accordo con lui. Non basta essere studiosi esperti degli argomenti di cui si tratta. Ma dove siamo arrivati? A me paiono ragionamenti da Stato autoritario, una sorta di censura culturale fascista».Del resto, qualche tempo fa, Di Matteo aveva bollato Fiandaca come “cattivo maestro”. Sempre a causa del modo col quale il professore siciliano aveva osato liquidare l’indagine sulla trattativa Stato-mafia. Vecchia storia e vecchie ruggini, dunque.La genesi di quella trattativa è nota: nel pieno della stagione delle stragi mafiose del ‘92-’93 (Omicidio di Salvo Lima, strage di Capaci e via D’Amelio, bomba a via dei Georgofili e di via Palestro) lo Stato avviò contatti con Cosa nostra per cercare un accordo. I boss risposero col famoso “papello” che l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino consegnò al colonnello dei Carabinieri Mario Mori: «Si sono fatti sotto. Gli ho presentato un papello così grande di richieste», confidò Totò Riina a Giovanni Brusca. E lì, su quel papello, c’erano le richieste della mafia per far cessare le stragi. Tra queste la revisione della sentenza del maxi-processo, l’annullamento del 41bis, la riforma della legge sui pentiti, la chiusura delle super carceri.E sulla base di queste rivelazioni, i pm di Palermo hanno istruito il processo, convinti che la trattativa ci fu e fu portata avanti da Mori con il beneplacito di pezzi delle istituzioni. A partire dal Quirinale. Ed è su questo che Fiandaca ha osato intervenire: «La scelta politico-governativa di fare concessioni ai mafiosi in cambio della cessazione delle stragi risulterebbe legittima perché legittimata, appunto, dalla presenza di una situazione necessitante che impone agli organi pubblici di proteggere la vita dei cittadini», scrisse con Lupo nel suo libro: “La mafia non ha vinto”. Apriti cielo. Fu a quel punto che Di Matteo e Ingroia prima chiusero ogni rapporto col professore, e successivamente ingaggiarono una vera e propria battaglia.Ma una cosa è certa  il generale Mori è stato assolto dall’accusa di aver favorito la latitanza di Bernardo Provenzano, impedendone la cattura nel 1995;  l’ex ministro Mannino, unico imputato che aveva scelto il rito abbreviato, è stato assolto dall’accusa di minaccia a corpo politico dello Stato «per non aver commesso il fatto» e lo Stato non solo non concesse niente a Cosa nostra, ma nel corso degli anni confermò, anzi inasprì la norma più odiata dai mafiosi: il 41bis, quel carcere duro che mezza Europa paragona alla tortura. Eppure, di fronte a questa Caporetto giudiziaria, qualcuno pensa che debba essere Fiandaca a non dover mettere piede nella Scuola superiore di magistratura.