Quando un giornale pubblica illegittimamente gli atti di un procedimento penale, l’unico danneggiato è lo Stato e non l’“infamato”. Per questo, non c’è diritto a chiedere il risarcimento del danno, a meno che non si dimostri di essere stati concretamente diffamati da quella pubblicazione. Lo ha stabilito - ribaltando la giurisprudenza maggioritaria - una sentenza delle Sezioni Unite civili della Cassazione, che ha deciso sul ricorso presentato da Mediaset contro il giornalista di Repubblica Giuseppe D’Avanzo.Punto centrale della decisione è l’articolo 684 del codice penale, che prevede: «Chiunque pubblica, in tutto o in parte, anche per riassunto o a guisa d’informazione, atti o documenti di un procedimento penale, di cui sia vietata per legge la pubblicazione, è punito con l’arresto fino a trenta giorni o con l’ammenda da euro 51 a euro 258». Un reato contravvenzionale, ma pur sempre un reato. La domanda a cui risponde la Suprema Corte è: chi risente di questa arbitraria pubblicazione? Secondo la posizione prevalente, il reato ha natura plurioffensiva, ovvero offende più soggetti: lo Stato e il suo interesse al funzionamento della giustizia, ma anche la reputazione delle parti nel processo.I giudici di legittimità, invece, hanno ritenuto che reato di pubblicazione arbitraria (senza che sia stata dimostrata la diffamazione ai danni dell’indagato o imputato) leda solo l’interesse al corretto funzionamento dell’attività giudiziaria, ma non dia diritto al risarcimento del danno, in sede civile, al cittadino sottoposto al procedimento. In altre parole: devo dimostrare di essere stato diffamato, perché la pubblicazione illegittima in quanto tale non lede i miei diritti di parte, ma solo l’interesse pubblico al buon andamento della giustizia. Infatti - continua la Cassazione - la norma tutela solo la «corretta formazione del convincimento del giudice» ed è volta a impedire alla stampa di «determinare la cristallizzazione di pregiudizi» in chi è chiamato a decidere.Il caso mediasetLa sentenza nasce da un ricorso civile degli avvocati di Mediaset. Nel 2005 il giornalista di Repubblica Giuseppe D’Avanzo, scomparso cinque anni fa, riportò due frasi in cui il “famigerato” David Mills parlava di Silvio Berlusconi, nell’indagine sulla presunta frode fiscale di Mediaset per la compravendita di diritti televisivi. D’Avanzo fu citato in giudizio perché, secondo gli avvocati, quelle frasi non erano pubblicabili. Mediaset chiedeva il risarcimento dei danni, ma la Cassazione ha rigettato definitivamente la richiesta, perché «l’obiettivo della norma è quello di non compromettere il buon andamento delle indagini», ma non di tutelare la parte coinvolta nel processo. La parte in questione, cioè Mediaset, era rimasta in causa con l’editore, il Gruppo L’Espresso, e il direttore Ezio Mauro.Nell’attuale normativa esiste un doppio filtro alla pubblicazione. Nella fase delle indagini preliminari, gli atti d’indagine sono coperti dal segreto. In altre parole, sono atti che l’indagato e il suo difensore non hanno ancora il diritto di conoscere. In questa fase, c’è il divieto assoluto di pubblicazione, anche parziale o per riassunto, degli atti coperti da segreto istruttorio e del loro contenuto. Solo al momento della chiusura delle indagini il segreto cade e l’atto diventa conoscibile all’imputato e al suo difensore. Da questo momento, è possibile divulgare il contenuto delle indagini, ma non il testo integrale virgolettato. Il testo integrale, invece, diventa pubblicabile integralmente solo al momento della pronuncia della sentenza di primo grado. L’obiettivo è quello di salvaguardare il libero convincimento del giudice, che non deve - o meglio non dovrebbe - venire a conoscenza degli atti di indagine se non della fase del dibattimento, in cui le prove devono formarsi nel contraddittorio tra le parti.