Si prepara la battaglia sulla giustizia. Dopo tanti rinvii forse è la volta buona. Ieri in Senato il Presidente del Consiglio ha lanciato i tre squilli di tromba. Non è la prima volta, è vero. Ma stavolta gli sarà difficile tornare indietro. Anche perché ha usato un vocabolario molto forte. Ha parlato di “barbarie giustizialista”, come aveva fatto giorni fa - proprio sulle colonne di questo giornale - il sottosegretario alla giustizia Gennaro Migliore.Il primo scontro sarà sulle intercettazioni. L’esito è incerto. Non è chiarissimo nemmeno quali siano le forze in campo. C’è un pezzo di magistratura, schieratissimo, che si batte col coltello e l’anima tra i denti perché non sia cambiato niente nella attuale disciplina, anzi sia resa ancora meno rigorosa. E questo pezzo di magistratura - che è quello contro il quale ieri si è scagliato Renzi - è appoggiata da quasi tutto il mondo del giornalismo. Che definisce “legge bavaglio” qualunque misura che disciplini la materia e che limiti le possibilità di gogna. Poi c’è un altro settore della magistratura - quello più moderno e meno giustizialista - che vorrebbe invece introdurre delle limitazioni anche abbastanza consistenti, ma si candida a decidere lei quali, e soprattutto ad avere poi il monopolio del controllo su intercettazioni e uso delle intercettazioni. Infine c’è il governo, orientato a riformare e limitare la divulgazione delle intercettazioni, ma che fin qui si è mostrato impaurito dalla forza del fronte opposto.Il fronte dei conservatori, a sorpresa, non è guidato dai magistrati ma dai giornalisti. Ieri lo ha detto - sollevando scandalo - una magistrata che è intervenuta al “Salone della Giustizia” (una manifestazione che si svolge a Roma). Ha sicuramente ragione. La magistratura sul tema è divisa, anche perché la maggioranza dei magistrati si rende conto che c’è un problema di costituzionalità (lo ha rilevato giorni fa il procuratore capo di Firenze, Creazzo): le intercettazioni, e a maggior ragione la loro divulgazione, contrastano in modo aperto con l’articolo 15 della Costituzione, e di conseguenza possono essere usate solo in circostanze straordinarie e per evidenti e solide ragioni di indagine. Proibire la divulgazione di pezzi di intercettazioni che non siano “prove di reati”, o che riguardino persone estranee al delitto, o che contengano informazioni su abitudini personali, sesso, rapporti privati, religione o altri affari personali, non è mettere il bavaglio alla stampa ma rispettare la Costituzione.Al sistema dell’informazione italiano, però, della Costituzione interessa poco. O piuttosto interessano molto solo alcune parti: non quelle che riguardano i diritti individuali e i diritti umani. Considerati un po’ anticaglie.Ieri “Il Fatto Quotidiano”, che ha assunto la guida del fronte giornalistico anti-riforma, titolava a tutta pagina, in prima, contro Napolitano e Renzi. Il titolo diceva: Premiata ditta Giorgio&Matteo, ora trivellano le intercettazioni». Nel sommario si rendeva chiarissima la denuncia: «L’obiettivo è lo stesso ribadito dal premier dopo l’inchiesta di Potenza: via dagli atti, e dunque dai giornali, tutte le telefonate che non contengano reati».La richiesta dei conservatori è quella di cambiare l’articolo 15 della Costituzione (per la verità, formalmente non è mai stata formulata questa richiesta, ma è sottintesa, e comunque inevitabile se si vuole evitare una riforma). Dice l’articolo 15: «La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili. La loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge».E’ partendo da questo articolo, e dalla necessità di rispettarlo, che il vicepresidente del Csm Legnini nei giorni scorsi aveva promesso un intervento per fermare il fango mediatico. Specie dopo l’affare Guidi e la divulgazione di chiacchiere e pettegolezzi sulla sua vita privata.