La guerra destinata ad avere le conseguenze più profonde e durature dal 1945 a oggi durò pochi giorni, dal 5 al 10 giugno 1967, e fu vinta in poche ore. Meno di tre ore dopo il decollo degli aerei israeliani diretti verso le basi aeree egiziane nel Sinai, Ezer Weizman, capo delle operazioni dell’esercito e futuro presidente della Repubblica, chiamò la moglie al telefono: «Abbiamo vinto la guerra». Un’ora più tardi il capo della Israel Air Force Motti Hod annunciava al capo di Stato maggiore Yithzak Rabin: «L’aereonautica militare egiziana non esiste più».

La guerra vera e propria doveva ancora cominciare. Contrariamente agli auspici dello Stato maggiore israeliano non si sarebbe combattuta solo sul fronte del Sinai, contro l’Egitto, ma anche sulla riva occidentale del Giordano, contro la Giordania, e a nord contro la Siria, sulla postazione strategicamente fondamentale del Golan. Ma l’annientamento dell’aviazione egiziana, a cui fece seguito la sera del 5 giugno quello altrettanto completo dell’aviazione siriana, garantiva a Israele il dominio assoluto dei cieli: un vantaggio che assicurava la vittoria.

Già dalla sera del 5 giugno quella dell’esercito israeliano fu soprattutto una gara contro il tempo per occupare quanto più territorio possibile prima che l’Onu decretasse il cessate il fuoco. Il ritardo dell’Egitto e della Siria nell’accettare la tregua permise a Israele di continuare a combattere per sei giorni, il doppio di quanto fosse atteso nella previsione più lunga. Il 7 giugno le Idf, Israeli Defence Forces, conquistarono dopo la battaglia forse più feroce e sanguinosa dell’in- tera guerra la Città vecchia di Gerusalemme, persa nella Guerra del 1948- 49. Nei giorni successivi completarono l’occupazione del Sinai, di Gaza e di quella che si chiamava allora la Cisgiordania, il territorio dove è ancora in attesa di nascere lo Stato palestinese. Il 9 giugno, sentendo avvicinarsi l’ora della tregua, Dayan, senza neppure avvertire il premier Levi Eshkol, ordinò l’attacco contro le alture del Golan, dalle quali la Siria bombardava da mesi i villaggi israeliani della Galilea. Furono conquistate poche ore prima della fine delle ostilità. L’ 11 giugno Israele aveva occupato oltre centomila km quadrati di territorio, un’area circa tre volte e mezzo superiore a quella dello Stato ebraico.

La guerra destinata a cambiare la storia del Medio Oriente e del mondo intero, le cui conseguenze continuano a moltiplicarsi in una sorta di infinito effetto a catena, non era stata davvero voluta da nessuno. Era il frutto di una serie di errori, fraintendimenti, azzardi, equivoci, false informazioni da parte di tutti: dell’Egitto, di Israele, delle potenze mondiali, dell’Onu.

Che i Paesi arabi mirassero davvero alla distruzione di Israele è certo e Nasser, raìs del più potente tra quei Paesi, l’Egitto, non era da meno. Ma una parte del suo esercito era impegnato nella guerra civile dello Yemen, disponeva di piani di battaglia sovietici essenzialmente difensivi e, pur pensando di poter già vincere, mirava ad aspettare almeno fino al 1970. Anche i generali israeliani ritenevano di poter vincere ma prevedevano perdite catastrofiche, temevano l’intervento russo e sapevano di non poter contare su un’America già troppo provata dal disastro vitenamita. In Russia l’ala brezneviana sperava in una vittoria militare che, con la sconfitta di Israele, avrebbe assestato un colpo micidiale agli Usa, ma il primo ministro Kossighin voleva invece che Nasser si fermasse un attimo prima del conflitto, per ottenere una vittoria politica “a tavolino”. Negli Usa il presidente Johnson non poteva coinvolgere il suo Paese in una nuova guerra e in più considerava Israele una pedina secondaria rispetto ai Paesi arabi non ancora caduti sotto l’influenza dell’Urss. Nessuno tra gli attori principali voleva la guerra. I fatti procedettero da soli.

Dal 1964 l’organizzazione di guerriglieri palestinesi Fatah, fondata nel 1959 da Yasser Arafat, aveva avviato una serie di incursioni armate in territorio israeliano: nei tre anni precedenti la guerra dei sei giorni ce ne erano state 122. L’obiettivo di Fatah era spingere i Paesi arabi a smettere di promettere la distruzione di Israele per passare all’azione. Era una strategia, spiegava lo stesso Arafat, fondata sulla convinzione che, insistendo nelle provocazioni, prima o poi la reazione di Israele avrebbe costretto gli Stati arabi, a partire dall’Egitto, a combattere. Gli attacchi partivano essenzialmente dalla Giordania e dal Libano ma era la Siria che garantiva a Fatah armi e addestramento. La stessa Siria, dal Golan, teneva sotto tiro la Galilea, colpendo i kibbutz e gli insediamenti.

Ma la Siria era alleata e protetta dall’Urss: il premier Eshkol, una colomba, esitava a rispondere con una rappresaglia diretta che evrebbe potuto provocare una reazione russa. Gli israeliani colpivano invece la Giordania, che tra i Paesi arabi era il più moderato, col risultato di indebolire la posizione già difficile del re Hussein, considerato dagli altri Paesi arabi un fantoccio dell’Occidente e minacciato da una popolazione costituita al 70% da palestinesi. Il 13 novembre 1966 una di queste azioni di rappresaglia, nel villaggio cisgiordano di Sumi, si risolse in una vera e propria battaglia con la Legione araba, la più efficiente unità militare del mondo arabo, fondata e guidata fino al 1956 dal generale inglese John Glubb, “Glupp Pascià”.

L’eco in tutto il mondo arabo fu enorme. I palestinesi minacciarono di detronizzare Hussein, che si difese accusando Nasser di viltà per non essere intervenuto. Per tutti gli anni ‘ 50 Nasser era stato il vero leader emergente del Terzo Mondo, amato e rispettato non solo dalle masse arabe. Nel ‘ 67 la sua immagine era però in declino: mostrarsi poco determinato nella causa che tutto il mondo arabo riteneva sacra, l’eliminazione di Israele, ne avrebbe leso definitivamente il prestigio. La spedizione di Musi fu un errore riconosciuto da Rabin. Portò la tensione alle stelle e spinse Hussein verso i falchi senza avere alcun effetto utile sulla guerriglia palestinese. Le cose peggiorarono quando, il 7 aprile 1967, si arrivò a uno scontro militare diretto con la Siria, nel quale furono abbattuti 6 aerei Mig di Damasco.

I russi reagirono avvertendo il mumero due di Nasser, Anwer Sadat in visita a Mosca, che Israele preparava una massiccia offensiva contro la Siria per il 17 maggio. Non era vero ed è a tutt’oggi oscuro quali fossero gli obiettivi dell’Urss. La notizia spinse comunque Nasser ad agire. Il 14 maggio, mentre Israele celebrava il Giorno dell’Indipendenza con una sfilata militare dimessa, truppe egiziane iniziarono a spostarsi nel Sinai. Nelle settimane seguenti salirono sino a 100mila soldati e oltre 900 carri armati, pronti a intervenire se la Siria fosse stata attaccata. Era la fine di un equilibrio che durava dalla fine della guerra del ‘ 56, una vera aggressione imperialista di stampo quasi ottocentesco contro l’Egitto da parte di Francia, Uk e Israele. Due giorni dopo Nasser chiese il ritiro della forza d’interposizione Onu nel Sinai, che dal ‘ 56 aveva impedito attriti diretti tra Israele ed Egitto ed evitato che azioni armate palestinesi partissero dal Sinai. La richiesta del ritiro era nel diritto dell’Egitto, ma il segretario dell’Onu U Thant avrebbe potuto provare a resistere, tanto più che Nasser aveva chiesto solo un ' ridispiegamento'. E’ possibile che il raìs puntasse proprio sulle resistenze dell’Onu per dare una prova di forza senza troppi rischi. Invece U Thant decise il ritiro totale nell’arco di pochi giorni. A quel punto, in as- senza di reazioni israeliane o internazionali, Nasser si spinse oltre e il 22 maggio ordinò la chiusura dello Stretto di Tiran, attraverso il quale passavano le navi israeliane dirette al porto di Eilat.

La chiusura dello Stretto era un atto che rendeva inevitabile la guerra. Israele non avrebbe potuto accettarla senza pagare prezzi pesantissimi in termini sia economici che, soprattutto, di equilibri politico- militari. Nasser ne era consapevole e tuttavia neppure questo basta a certificare che volesse la guerra. Il feldmaresicallo Amer, capo dell’esercito e sicuro di vincere, premeva in quella direzione. Le immense masse arabe che ovunque scendevano per le strade acclamando il raìs e invocando la distruzione di Israele rappresentavano una forte ipoteca a favore della guerra. Ma Nasser rimase indeciso sino all’ultimo. Alle fine di maggio l’ordine di attacco, già impartito, fu annullato perché sembrava che Israele fosse al corrente della mossa. Ancora nelle ultime ore prima della guerra Nasser frenava, spiegando che le reazioni internazionali avrebbero bollato chi avesse attaccato per primo.

Israele era nella stessa situazione. La Casa Bianca aveva chiesto imperiosamente di non sparare il primo colpo e aveva promesso di organizzare nel giro di qualche settimana un convoglio internazionale per forzare il blocco dello Stretto. Eshkol non voleva sfidare il veto americano. Il padre della patria Ben Gurion, secondo cui non era pensabile una guerra senza una grande potenza alleata, strapazzò Rabin a tal punto, accusandolo di aver messo a rischio l’esistenza dello Stato, che il capo di Stato maggiore subì un crollo nervoso e rimase fuori gioco per due giorni nel cuore della crisi.

Il momento di massima tensione furono le settimane prima della guerra. Gli ebrei della diaspora e gli stessi cittadini israeliani pensarono davvero di essere sull’orlo di una nuova Shoah. In Israele furono scavate decine di migliaia di fosse per le future vittime. Eshkol si rivolse alla popolazione con un discorso tanto balbettante da seminare il panico. Quando Hussein e Nasser si incontrarono al Cairo per stringere un accordo il terrore arrivò ai massimi livelli. Il governo era diviso in due fazioni esattamente pari: quelli che volevano attaccare e quelli che, come Eshkol, insistevano perché la diplomazia esperisse ogni possibilità pacifica. Israele ed Egitto erano così in una situazione speculare: entrambi consapevoli che il vantaggio del primo colpo sarebbe stato fondamentale, entrambi troppo esitanti per dare l’ordine.

Il clima in Israele cambiò quando a Eshkol fu di fatto imposto di abbandonare il ministero della Difesa, tradizionalmente nelle mani del premier, a favore del generale Moshe Dayan, eroe della guerra del ‘ 56. Arrogante, spavaldo, laico, gran sciupafemmine, con l’occhio perso nella guerra mondiale coperto da una benda nera, Dayan era un eroe nazionale. La sua sola presenza ebbe un enorme effetto rassicurante sugli israeliani. Dayan prese in mano il comando. Fu lui a insistere per l’attacco il 5 giugno, anche se la propaganda israeliana disse che invece erano stati gli egiziani a colpire per primi. L’assenza dell’elemento sorpresa fu compensata attaccando non all’alba, come d’uso, ma due ore dopo, quando gli egiziani non si aspettavano più l’incursione. Fu un azzardo: Israele aveva lasciato solo 12 aerei a protezione del proprio territorio, che rimase per ore di fatto indifeso.

Dayan aveva ordinato di non attaccare né la Giordania né la Siria, ma su quanto ci credesse davvero è lecito dubitare. I suoi ufficiali dicevano ironicamente che «avrebbe chiuso un occhio». Non ce ne fu bisogno. La propaganda egiziana informò Amman e Damasco che le linee nemiche erano state sfondate e l’armata egiziana stava per conquistare Tel Aviv. Hussein mosse le sue truppe, inclusa la Legione Araba con la sua aura di invincibilità. La battaglia per Gerusalemme si concluse con l’occupazione della Città Vecchia, nonostante un appello in extremis del Vaticano e di Washington per farne una città aperta. Israele si impegnò però a garantire la libertà di culto, che agli ebrei era stata negata nei 19 anni di occupazione giordana. Dayan fece ammainare immediatamente la bandiera israeliana che il rabbino capo dell’esercito aveva fatto issare sulla cupola della Roccia. A guerra finita, andò a pregare con i mussulmani nella moschea di al- Aqsa.

I siriani reagirono alla falsa notizia della vittoria egiziana con missioni aree e bombardamenti contro lo Stato ebraico, ma già in serata la Iaf aveva praticamente distrutto la sua aviazione. La presa del Golan fu decisa semplicemente perché si offriva l’occasione di eliminare la postazione che bersgliava da mesi la Galilea. Nel Sinai, dove i carri armati egiziani avrebbero comunque potuto resistere a lungo, la disfatta fu completata da un folle ordine di ritirata, che Nasser negò in seguito di aver mai avallato e che si risolse nella distruzione dell’intera armata. Quei sei giorni cambiarono tutto in Medio Oriente. Fino a quel momento l’obiettivo dei Paesi arabi era stata la distruzione di Israele. Poi fu solo, ed è ancora, la liberazione della West Bank. Il sogno nasseriano di unità panaraba laica morì in quei giorni, spalancando le porte al ritorno dell’integralismo religioso. I palestinesi, che erano stati i soli a volere davvero la guerra, smisero di contare sull’appoggio degli altri Paesi arabi e decisero di provare a fare da soli, inaugurando la stagione del terrorismo internazionale. Israele si trovò in un dlemma che non ha ancora sciolto. L’obiettivo del primo sionismo, uno Stato ebraico su tutta la Palestina, era a portata di mano ma allo stesso tempo impraticabile: da mezzo secolo Israele non riesce a uscire da quel vicolo cieco. I rapporti tra Israele e gli Usa cambiarono radicalmente: Washington aveva visto lo Stato ebraico come un alleato di secondaria importanza. Scoprì di avere a che fare con la principale potenza regionale e strinse vincoli che, pur tra alti e bassi, non si sono mai davvero allentati. Ma anche Israele cambiò. L’occupazione dei luoghi sacri modificò la natura di uno Stato che era stato sino a quel momento assolutamente laico, anzi sprezzanrte nei confronti dell’ebraismo religioso della diaspora, sino a rendere predominante il fattore religioso. La guerra dei sei giorni disegnò il mondo in cui ancora viviamo.