Malumori, mugugni, mal di pancia. Ma nessuno mette in discussione la leadership di Matteo Salvini, neppure sottovoce. Il capitano continuerà a guidare la Lega e se dovrà correggere la linea non sarà in senso più governista, «valorizzando l'azione dell'esecutivo», come vorrebbero i ministri, in particolare lo sconsolato Giancarlo Giorgetti, e neppure in direzione di una vera spallata. Se qualcosa dovrà essere corretto sarà in direzione di un ritorno alla difesa degli interessi del Nord, della base di sempre, dei piccoli e medi industriali veneti e padani che si sono sentiti trascurati dal miraggio della Lega nazionale e che adesso scalpitano. Non sono i soli a presentare il conto ma sono i soli che Salvini non si possa permettere di ignorare.

Ma con la tempesta che promette di infuriare già a partire da agosto, con in ballo una finanziaria delicatissima e quasi certamente qualche nuovo decreto di sostegno dopo i tre già varati a raffica in pochi mesi per difendere quegli interessi è fondamentale pesare nel governo e nella maggioranza. Per Salvini la possibilità di rompere è molto vicina allo zero. L'intervista ruggente nella quale sembrava mettere il governo di fronte a un ultimatum, «mi do tempo fino a settembre. Draghi deve sapere che ci sono temi su cui non siamo disposti a transigere», è stata derubricata ieri: «Non si tratta di un ultimatum».

Tutto può essere, sia chiaro. La possibilità che le corde troppo tirate si rompano esiste sempre ed esisterà a maggior ragione in autunno, quando l'imminenza della scadenza della legislatura depotenzierà l'arma del voto di fiducia. Ma la strategia di Salvini passa più per una contrattazione magari a muso duro e portata all'estremo che non per la scelta di uscire in extremis dalla maggioranza. È peraltro interessante notare che il rinvio a settembre esclude possibili colpi di scena prima dell'estate, con ciò disinnescando in buona parte la minaccia legata alle tensioni già in pieno corso, in particolare il dibattito del 21 giugno sulla guerra.

Giuseppe Conte si trova in condizione analoga. Ieri il Tribunale di Napoli ha respinto il ricorso contro la sua elezione/ nomina a capo dei 5S. Se esisteva una peraltro remota possibilità che l' "avvocato del popolo" strappasse con il Movimento per dar vita, fuori tempo massimo, a un suo nuovo partito, è svanita ieri. Come leader dei 5S, Conte non può neppure immaginare un'uscita dal governo e dalla maggioranza che implicherebbe sia la scissione del Movimento che lo strappo col Pd. Il rischio di finire alle elezioni nella zona prefisso delle percentuali sarebbe altissimo. Però anche Conte, come Salvini, dovrà indossare i panni del sindacalista e trasformare l'ultimo scorcio della legislatura, in particolare la legge di bilancio, in una sorta di contrattazione continua e a tempo pieno.

In questo quadro chiedersi, come molti pur fanno, se Draghi reggerà o meno, se resisterà o perderà la pazienza è probabilmente ozioso. Draghi ha ancor meno intenzione di mollare di quanta ne abbiano i partiti di maggioranza di spingere fino all'irreparabile. Ma lo stato delle cose lo mette di fronte a un bivio: ignorare le richieste e le pressioni dei due partiti più forti della sua maggioranza, in Parlamento se non nel Paese, e procedere facendo valere la posizione di assoluta forza nella quale si trova, imponendo a muso duro tutte le sue decisioni, oppure accettare il terreno della contrattazione "sindacale", con tutto quel che ciò comporta in termini di rallentamento dell'azione di governo.

Ma in questa scelta, o meglio nell'equilibrio tra le due modalità che inevitabilmente il premier dovrà cercare come in realtà ha già fatto spesso negli ultimi mesi, peseranno moltissimo, in modo probabilmente decisivo, le realtà esterne alla cittadella della politica: il livello della tensione sociale derivata dalla crisi, il peso della stessa sulla competitività e forse sui rischi per la sopravvivenza di molte aziende italiane e la rotta che seguiranno e istituzioni europee, al momento ancora del tutto incerta.