«J’appelle notre peuple à déferler dimanche prochaine - Chiedo alla nostra gente di farsi avanti domenica prossima», così Jean- Luc Mélenchon ha commentato a caldo il risultato del primo turno delle presidenziali in Francia domenica sera, il “suo” ottimo risultato. Perché, di fatto, è la prima formazione politica per percentuali di voto. C’è stato un “piccolo giallo”: stando ai risultati diffusi dal ministero degli Interni, c’era uno scarto dello 0,9 percento di vantaggio tra l’Ensemble di Macron e la Nupes di Melénchon (25,75% dei voti, contro il 25,66%). Però, nella stima del ministero non erano stati calcolati alcuni candidati di sinistra, le cui preferenze erano state conteggiate per i singoli partiti e non per la coalizione.

Un metodo sbagliato anche per i giudici del Consiglio di Stato. Conteggiando invece tutti i candidati di Nupes, la coalizione raggiunge il 26,1% dei voti contro il 25,8% di Ensemble ( fonte: «Le Monde»): una differenza di 21.442 voti. Il sistema francese prevede collegi uninominali dove i singoli deputati vengono eletti sulla base di due turni. L'alta soglia di sbarramento al primo turno (50% dei voti, ma solo se l'affluenza ha superato il 25% degli aventi diritto) comporta nei fatti che quasi tutti i collegi debbano passare per il ballottaggio: le urne che si sono chiuse domenica sera, infatti, hanno consegnato solo 5 deputati eletti (4 per Nupes, 1 per Ensemble) su 577. Le percentuali di voti ottenuti a livello nazionale, dunque, non incide sui risultati definitivi («Libération» calcola che la Nupes può sperare di raccogliere tra i 150 e i 190 deputati, mentre a Ensemble dovrebbero andare tra i 255 e i 295 eletti), ma ha senza dubbio un importante significato politico: il primo, è che Macron potrebbe trovarsi senza maggioranza politica ( 289).

Il secondo, che la sinistra avrebbe comunque un ruolo determinante, mentre negli ultimi anni non ha raccolto che miettes, briciole nell’opposizione. È questo straordinario risultato – ma era già accaduto con le presidenziali, mancato il ballottaggio per un soffio – che ha scatenato l’entusiasmo social della “sinistra radicale” italiana, al motto: «Facciamo come Melénchon!» Va detto: la “sinistra radicale” italiana è sempre alla ricerca di un qualche risultato straordinario all’estero, da cui prendere esempio; per un periodo, andò molto la Linke di Lafontaine, quando viaggiava su percentuali a due cifre; poi, ci fu l’innamoramento per Tsipras e la sua Syriza, arrivata addirittura al governo; e infine, quello per Podemos di Iglesias (c’è anche qualche venatura terzomondismta: per Evo Morales e la Bolivia, poi per Rafael Correa e l’Ecuador, ora per Gabriel Boric e il Cile). Parliamo cioè di “alleanze”, di coalizioni, di puzzle politici dove partiti minori si riuniscono per affrontare insieme le tornate elettorali e acquistare peso. Che è un po’ il processo che ha attraversato La France Insoumise di Melénchon e che ha poi dato vita alla Nupes (Nouvelle Union populaire écologique et sociale) con il Polo ecologista, il Partito comunista e il Partito socialista – quest’ultimo con gran sofferenza avendo votato a maggioranza del Consiglio nazionale con il 62 percento, ma già martoriato, almeno fino a domenica, da una opposizione interna che si è rivolta addirittura a un Tribunale per invalidare quella decisione).

Il fatto è che queste alleanze («Non è un cartello elettorale» insisteva il segretario dei socialisti francesi Olivier Faure alla presentazione del programma di Nupes) nascono o intorno processi dal basso, come per Podemos, legata al movimento degli Indignados, e come per Syriza, oppure ruotano intorno un “polo di calamita” che attrae gli altri, come era per la Linke con il PDS, e come è per la Nupes con France Insoumise. E tutte presentano un forte carattere di “personalizzazione”: Oskar Lafontaine (che era stato presidente della SPD), Alexis Tsipras, Pablo Iglesias, Jean- Luc Melénchon, è difficile separare la formazione e il percorso politico che hanno rappresentato o rappresentano dalla loro stessa persona ( tranne che per Melénchon, lo si può dimostrare anche all’incontrario – nella crisi del loro “gioiello” che è anche una crisi personale).

Tutto questo in Italia non c’è – non c’è “l’elaborazione” della generazione alter-globalista fino a Genova 2001, cui appartengono e Iglesias e Tsipras, in forza istituzionale, e non c’è una radicalità nella storia socialdemocratica, socialista, da cui provengono e Lafontaine e Melénchon ( che si richiama fortemente, nell’immaginario, a Jean Jaurès e al Front populaire di Leon Bloom del 1936). Da noi, ci sono solo “les miettes”, le briciole.

Lascia poi perplessi questa “esterofilia” dell’emulazione: la grande storia politica del Partito comunista italiano (“il più grande partito comunista dell’occidente”) è stata determinata anche dalla scelta della “via italiana al socialismo” di Togliatti, cioè di “modulare” la costruzione di una grande forza di sinistra, un grande partito di massa, legandola alla sua storia nazionale e popolare. «L’avanzata verso il socialismo – furono le parole di Togliatti all’VIII Congresso del 1956 – deve essere realizzata dalla classe operaia guidata in modo diverso a seconda delle condizioni e delle particolarità economiche, politiche, nazionali e culturali di ciascun paese». Era «il riconoscimento di principio delle diverse vie di sviluppo verso il socialismo».

Non capiremmo il “compromesso storico” di Berlinguer, ossia l’apertura verso le forze cattoliche, né “l’ombrello della Nato” (intervista a Giampaolo Pansa, ottobre 1976) senza individuare questo filo di “sensibilità” verso le condizioni concrete della storia nazionale. Forse è meglio che Melénchon faccia la “sua” sinistra in Francia e che in Italia si pensi davvero a come costruire una grande forza d’opposizione, “in proprio”.