La Corte di Giustizia dell’Unione europea ha dichiarato illegittima l’esclusione dei cittadini stranieri privi di permesso di lungo periodo dal bonus bebè, istituito in Italia nel 2015, e dalla indennità di maternità per le madri disoccupate.

Una sentenza che giunge al termine un lungo contenzioso nel quale l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), tramite i suoi legali, si è impegnata in questi anni in tutti i tribunali d’Italia, dopo aver ripetutamente e inutilmente segnalato la necessità di intervenire sulle norme ora censurate dalla Corte.

«La sentenza conferma che il diritto dell’Unione può dare un contributo importante alla affermazione dei principi di uguaglianza – commenta l’avvocato Alberto Guariso di Asgi, che ha assistito i ricorrenti davanti alla Corte – ma spiace constatare che per molti anni la metà delle mamme e delle famiglie straniere sono state illegittimamente escluse – per ragioni puramente ideologiche – da importanti prestazioni di sostegno che avrebbero garantito un maggiore integrazione sociale, con beneficio non solo per gli stranieri ma per l’intera collettività».

Ora l’Inps dovrà versare le prestazioni a tutti gli stranieri che avevano fatto domanda e se l’erano vista respingere. Alcuni dei nove casi giunti all’attenzione della Corte erano stati segnalati da altri enti e associazioni come la Cgil di Brescia e Bergamo e l’Inas- Cisl di Milano Da gennaio prossimo, poi, le due prestazioni saranno assorbite dall’assegno unico che non presenta più la limitazione oggi dichiarata illegittima, ma che ancora non prevede una chiara estensione a tutti gli stranieri destinatari della direttiva 2011/ 98, rischiando di innescare nuove incertezze e nuovi contenziosi. Nel frattempo rimangono nel nostro ordinamento altre prestazioni, come il bonus asili nido, ancora riservate ai soli lungo soggiornanti, alle quali il Parlamento italiano dovrà ora mettere urgentemente mano per evitare ulteriori condanne da parte della Corte di Giustizia dell’Unione europea.

Per capire meglio, la sintesi messa direttamente a disposizione della Corte Ue spiega che le autorità italiane hanno rifiutato la concessione di un assegno di natalità e di un assegno di maternità a diversi cittadini di paesi terzi che soggiornano legalmente in Italia, titolari di un permesso unico di lavoro ottenuto in forza della normativa italiana che recepisce la direttiva 2011/ 98. Tale rifiuto è stato motivato dal fatto che, contrariamente ai requisiti previsti dalla legge n. 190/ 2014 e dal decreto legislativo n. 151/ 2001, tali persone non sono titolari dello status di soggiornanti di lungo periodo.

Per quanto riguarda l’assegno di natalità, la Corte Ue rileva che tale assegno viene concesso automaticamente ai nuclei familiari che rispondono a determinati criteri oggettivi definiti ex lege, prescindendo da ogni valutazione individuale e discrezionale delle esigenze personali del richiedente. Si tratta di una prestazione in denaro destinata in particolare, mediante un contributo pubblico al bilancio familiare, ad alleviare gli oneri derivanti dal mantenimento di un figlio appena nato o adottato.

La Corte da ciò conclude che tale assegno costituisce una prestazione familiare, ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, lettera j), del regolamento n. 883/ 2004.

Per quanto riguarda l’assegno di maternità, la Corte rileva che esso è concesso o negato tenendo conto, oltre che dell’assenza di un’indennità di maternità connessa a un rapporto di lavoro o allo svolgimento di una libera professione, delle risorse del nucleo di cui fa parte la madre sulla base di un criterio oggettivo e legalmente definito, ossia l’indicatore della situazione economica, senza che l’autorità competente possa tener conto di altre circostanze personali. Inoltre, tale assegno si riferisce al settore della sicurezza sociale di cui all’articolo 3, paragrafo 1, lettera b), del regolamento n. 883/ 2004.

La Corte quindi conclude che l’assegno di natalità e l’assegno di maternità rientrano nei settori della sicurezza sociale per i quali i cittadini di paesi terzi di cui all’articolo 3, paragrafo 1, lettere b) e c), della direttiva 2011/ 98 beneficiano del diritto alla parità di trattamento previsto da detta direttiva.