Il ricordo che Giorgio Benvenuto, storico leader della Uil negli anni più duri dello scontro tra aziende e sindacati, fa di Cesare Romiti, dirigente della Fiat per 24 anni e scomparso ieri all’età di 97 anni, è quello di un uomo "duro ma affezionato al dialogo, che non amava la retorica e difendeva i suoi interessi come d’altronde facevamo noi”. Qual è il suo ricordo di Romiti?  Era un interlocutore molto fermo, molto duro ma con cui si facevano gli accordi, e questa è la prima cosa importante. Le posizioni erano nette ma era duro perché rappresentava gli interessi dell’azienda. Io in particolare l’ho conosciuto quando lui era dirigente della Fiat e io ero segretario dei metalmeccanici quando c’erano anche Carniti e Trentin e poi sono stato segretario della confederazione insieme a Lama e allo stesso Carniti. Sono stati trent’anni in cui il sindacato ha svolto un ruolo predominante nel Paese, ma come sappiamo era un Italia molto diversa. Cosa apprezzava del su modo di gestire le trattative? Io credo che sia sempre meglio aver un interlocutore chiaro nelle sue posizioni piuttosto che uno che ondeggia e non prende mai posizione. Ma anche noi difendevamo i diritti dei lavoratori con forza e quindi sapevamo che bisognava trovare un punto di accordo. A volte la bilancia ha pesato di più dalla parte nostra, altre volte dalla loro. Ma Romiti era una persona competente, capace, che non giocava alla divisione degli interlocutori, anche perchè allora il sindacato aveva un forte rapporto unitario e un dirigente che trattava con noi doveva fare i conti con la realtà. Quando ha iniziato a interagire con Romiti? Il periodo di conoscenza reciproca è stato lunghissimo. Io ho iniziato a fare il sindacalista quando avevo 17 anni e già allora entrai nello staff del segretario generale della Uil. Ero l’ultima ruota del carro e dovevo imparare, ma da semplice apprendista ricordo l’impressione che mi dette quest’uomo giovane e molto abile nell’esporre le posizioni. Poi ho trattato con lui in qualità di segretario dei metalmeccanici e ho mantenuto un rapporto forte con lui quando ero parlamentare, eletto nel collegio di Mirafiori a Torino, così come da presidente della commissione Finanze. Negli ultimi anni ho avuto occasione di partecipare a molti “amarcord” nel ricordare i tempi che furono. Con lui erano difficili le guerre per errore, perchè anche quando c’erano opinioni diverse le discussioni erano molto chiare. Apprezzavo il suo modo deciso e questa sua visione generale dei problemi, non domestica, mi piaceva. Allora si guardava ai problemi di strategia, non al particolare. La battaglia più importante, che tutti ricordano, finì con la celebre marcia dei 40mila. Cosa ricorda di quel periodo? Era il 1980 e uscimmo sconfitti dal contrasto che la Fiat aprì perché era con l’acqua alla gola e aveva bisogno di ristrutturare l’azienda. La marcia dei 40mila avvenne in un contesto completamente nuovo perché era finito il compromesso storico e il Pci era finito all’opposizione. In Polonia c’erano Solidarnosc e Lech Walesa e il momento era di forte dissenso tra sindacato e Pci. Noi, consapevoli che la situazione economica traballava, facemmo con il governo Cossiga un accordo per un fondo di solidarietà che doveva prevedere investimenti, infrastrutture e la modernizzazione dell’Italia meridionale. L’accordo fu combattuto aspramente dal Pci. Quindi il sindacato si trovò ad affrontare il problema della Fiat in un contesto politico debole. Berlinguer invitò a trattare come Walesa, con gli altoparlanti, a Torino e non a Roma. Per la prima volta i rapporti con il Pci furono davvero difficili e la forza veniva dalle avanguardie della Fiat con le quali non potevamo rompere. Eravamo forti come consenso e come delegati alle elezioni ma deboli come iscritti. In quella vicenda il sindacato giocò tutte le sue carte per arrivare all’intesa e avevamo quasi un accordo in tasca, poi avvenne la marcia dei 40mila e la Fiat seppe fare una politica molto abile nei mass media, con un grande impatto sull’opinione pubblica. L’azienda fece anche una mossa abilissima: mentre prima parlava di licenziamenti, con la caduta del governo Cossiga li trasformò in cassa integrazione guadagni. Noi non cogliemmo l’occasione per sospendere il blocco dei cancelli ma continuammo come sempre cercando di discutere sulle modalità della Cig. Romiti allora fece attaccare alle entrate degli stabilimenti l’elenco delle persone che andavano in Cig guadagni e questa abile mossa spaccò il sindacato, perché chi era nell’elenco voleva la lotta dura e chi non c’era voleva una soluzione. Ma Romiti non volle stravincere. Riuscimmo a fare un accordo, perché la nostra posizione è sempre stata quella di compromesso e non di rivoluzione. Ma la storia che lega il sindacato e Romiti non fu segnata solo dalla marcia dei 40mila… Facemmo con lui altri accordi, come quello per trattenere l’Alfa Romeo nella Fiat. A quell’epoca eravamo tutti d’accordo anche se qualcuno poi si pentì. Molti videro nella Fiat il capitalismo da battere ma secondo me il sindacato, nato come forza antagonista, nel mondo di oggi della globalizzazione deve essere protagonista e avere spazi conflittuali ma anche costruire spazi di dialogo. L’interesse del sindacato è quello che l’azienda sia competitiva, perché se l’azienda va bene si può discutere con maggiore forza, ad esempio, sulla ripartizione dei profitti. Con l’Italtel, invece, fu diverso. In Italia c’è sempre stato un po’ di maschilismo e astio per le donne e l’ho visto nel sindacato, dove eravamo tutti uomini.  Marisa Belisario era grande imprenditrice e avevamo fatto accordi d’avanguardia con contratti di solidarietà  perché Telettra, una fabbrica della fiat, si accordasse con Italtel. Ma Romiti si oppose perché penso che tra i tanti pregi, avesse anche un grande difetto, quello di essere un po’ maschilista come tanti imprenditori e politici dell’epoca. Erano, quelli, anche gli anni del terrorismo e degli omicidi in fabbrica. Come giudica quel periodo? Furono anni di forte tensione ma ricordo che Romiti aveva spinto il sindacato a prendere misure più ferme sul terrorismo e il sindacato non è caduto nella provocazione come sempre avviene di strafare, considerando terroristi anche sindacalisti un po’ rompiscatole. Ma i problemi esistevano alla Fiat come all’Alfa Romeo e devo riconoscere che la lotta al terrorismo vide impegnati i tre sindacati in maniera molto forte, così come il partito comunista. Cosa ricorda del Cesare Romiti uomo, al di fuori delle sale dove discutevate gli accordi tra sindacato e azienda?  Era persona molto simpatica, potevamo dialogare con lui, in tanti momenti difficili trovavamo l’occasioni per scambiare opinioni e valutazioni con lui, anche negli anni della vecchiaia. Non amava la retorica, era un uomo concreto. Oggi ci sono i monologhi, mentre lui era un uomo del dialogo. Aveva anche una grande attenzione, io gli dicevo sempre che aveva fatto un po’ come Nenni, aveva capito l’importanza della Cina. Nel mondo bipolare che ha caratterizzato la prima repubblica la Cina era un fattore interessante nel campo degli scambi commerciali. É stato un presidente molto rispettato dell’associazione Italia Cina ed è stata una persona molto attenta alla cultura, alla conoscenza, alla città di Torino. Aveva una visione larga dei problemi. A me viene da sorridere quando sento dire che era un duro, perché ho sempre preferito quelli come lui che rappresentavano i suoi interessi conto il sindacato che rappresentava in modo determinato i propri. Il ruolo del sindacato è quello di trovare compromessi e con Romiti si riusciva. Ci preavvertiva anche dei grandi progetti della Fiat, come l’accordo con Iacocca per la Chrysler, poi fatto da Marchionne ma di cui si parlava già alla fine degli anni ’80. Ormai fuori dai riflettori, durante le tavole rotonde era come una rimpatriata. Avevamo dimenticato la durezza degli incontri e dopo venti o trent’anni ragionavamo di come questo filo non si era mai interrotto. Sono molto dispiaciuto per la sua morte…