La politica, per una volta, è ben lieta di stare alla finestra e di lasciare alle toghe il compito di trovare in autonomia una via per uscire dal pantano in cui è bloccato il Csm. Anzi, la linea del governo sembra essere proprio quella di lasciare ai magistrati l’onere di gestire l’attenzione pubblica catalizzata dalle chat di Palamara, separando nettamente il “caos procure” dalla riforma dell’organo di autogoverno. Una riforma da gestire senza alcuna fretta e con l’imperativo di evitare divisioni interne alla maggioranza di governo.

I tempi dell’approvazione, infatti, continuano a dilatarsi. Il testo doveva arrivare sul tavolo del Consiglio dei ministri la settimana scorsa, poi a fine giugno, ma con tutta probabilità slitterà ulteriormente. Del resto, il governo è ancora alle prese con la complicata Fase 3 della pandemia e lo stesso ministero della Giustizia sta gestendo il ritorno al lavoro nei tribunali. Dunque, al netto del clamore mediatico, la riforma del Csm è solo uno dei tanti dossier sulla scrivania di via Arenula e nessun angolo dell’Esecutivo preme per accelerare. Inoltre, il testo da licenziare in Cdm è un disegno di legge delega al governo, dunque dovrà passare per l’approvazione del Parlamento e l’aspettativa dell’Esecutivo è che commissioni e Camere vogliano procedere a qualche modifica. Tradotto, calma e gesso.

Del resto, il testo non è ancora chiuso. Le lunghe riunioni al ministero tra il ministro Alfonso Bonafede e le delegazioni dei partiti di maggioranza hanno risolto alcune questioni, altre invece rimangono aperte. L’intenzione dei 5 Stelle di voler precludere la nomina a consiglieri laici del Csm ai parlamentari «è stata superata», ha spiegato il responsabile Giustizia del Pd, Walter Verini, che ha confermato che la nuova bozza non contiene più alcuna limitazione per deputati e senatori. La quadra, invece, manca ancora del tutto sulla riforma del sistema elettorale per i membri togati e proprio questo è il nodo insolubile che sta bloccando il via libera in Cdm. «Un nodo che rimane perchè si sta studiando quale possa essere il sistema migliore per garantire che non ci siano degenerazioni correntizie e che ci sia parità di genere», ha commentato Verini. Su questi due obiettivi - argine alle correnti e maggiore rappresentanza di genere «c’è pieno accordo in maggioranza», ma la difficoltà è trovarne una declinazione fattuale.

Le ipotesi in campo sono molte e disparate. L’ipotesi più accreditata sembrava quella di eliminare il collegio unico nazionale in favore di più collegi localizzati, in modo da far prevalere i singoli magistrati apprezzati sui territori invece di quelli indicati dalle correnti. I contrari, però, hanno obiettato che collegi con numeri molto ridotti si presterebbero a facili “scambi” di voti. Altra ipotesi, divisiva soprattutto per le toghe ma non del tutto scartata, rimane quella del sorteggio. Di ancora più difficile soluzione, inoltre, è il problema di favorire la parità di genere tra gli eletti: tra le possibilità sul tavolo ci sarebbe quella di formare due distinte liste, una di uomini e una di donne, e l’obbligo di doppia preferenza.

Quel che è emerso chiaramente dal tavolo di confronto in maggioranza, tuttavia, è che non si sia formata una netta preferenza per un sistema o per l’altro e dunque nemmeno la condivisione di un testo da portare in Cdm. «In ogni caso, il Parlamento avrà l’ultima parola sul disegno di legge delega», aggiunge Verini. Dunque ci sarà modo per le Camere di entrare nel merito, con audizioni in Commissione, in modo da definire in modo specifico i margini della delega al governo. L’imperativo della maggioranza, tuttavia, rimane quello di procedere nel modo più ordinato possibile e senza strappi.