di Pasquale Grasso

L’aspirazione alla carriera, a dimostrare a se stessi e al prossimo che “si vale”, è connaturata all’essere umano. Anche dove non ci siano benefici economici (e in magistratura non ve ne sono) ma solo “sociali”, si tratta di una tensione connaturata all’uomo e, a mio avviso, pure positiva.

Con il termine carrierismo, invece, intendiamo la distorsione di quella fisiologica tensione, con ogni possibile, più o meno esteso, cedimento rispetto all’amor proprio e alla dignità, se non alle regole.

In magistratura il carrierismo, opinione personale, è “andato a braccetto” con la gerarchizzazione.

La gerarchizzazione è quella “cosa” che, in aperta distorsione della nostra Costituzione ( che prevede che i magistrati si distinguano solo per funzioni), è giunta a farci chiamare “capi” i dirigenti degli Uffici Giudiziari.

È molto più forte nelle Procure, che sono per legge molto gerarchizzate; ma è presente anche nei Tribunali, in forma strisciante.

In gran parte deriva dal sistema dei pareri che i direttivi e semidirettivi redigono sui colleghi in occasione delle valutazioni di professionalità, che i magistrati affrontano ogni 4 anni. Se è vero che un parere negativo non può essere inventato di sana pianta, e che quasi tutti i magistrati ottengono il positivo superamento della valutazione di professionalità, è noto a tutti che un parere un po’ “tirato via” o “dubbioso” può pregiudicare le aspirazioni di carriera di un magistrato... e di qui il conformismo negli uffici, l’attenzione all’approvazione del “capo”, la corsa a incarichi piccoli e grandi che “facciano punteggio” ( nel gergo ormai sono chiamate medagliette), la ricerca di “protezione” in una corrente e, di nuovo come in una ruota, l’atteggiamento gerarchizzante.

Per converso, i “capi” hanno capito bene come esercitare le conseguenti prerogative di influenza sui “sottoposti”. Per capirlo, un esempio. Proprio per la necessità di porre termine alla possibilità di creare “carriere” negli uffici di Procura con l’assegnazione - di fatto completamente discrezionale - di incarichi a singoli pubblici ministeri da parte del Procuratore, appena un paio di mesi fa il Csm ha dovuto chiarire ciò che in un sistema lineare avrebbe dovuto essere evidente, e cioè che tali incarichi vanno conferiti con specifica aderenza alle capacità e professionalità effettivamente riscontrate, e non - come accaduto finora - in modo sostanzialmente incontrollato e acritico, nella migliore delle occasioni.

Peraltro, occorre ricordare che la gerarchizzazione nasce dalla, non troppo nascosta, aspirazione politica al controllo dei magistrati (più facile controllarli attraverso i capi, che cercare di controllarli tutti, specialmente nelle Procure). A me pare evidente che proprio il possibile aumento della rilevanza pratica e sistemica dell’essere “capo”, abbia accresciuto la corsa a diventare tale e, per contro, alla ricerca di forme di integrazione di costoro - i “capi” - da parte della politica.

Attenzione, non sto affermando che ci siano trame oscure, ma semplicemente evidenziando alcune delle fisiologiche conseguenze dell’impostazione generale.

Infine, sul Csm. Ammettiamo che l’ampliamento della discrezionalità nella scelta dei direttivi nasca dalla necessità ( illusione?) di non far “attendere troppo” i primi della classe ( ma quanti Falcone pensavamo di avere…), a fronte di “anziani” forse meno capaci. Ma è stato un sistema che, per la reale impossibilità di valutare davvero il merito di un magistrato ( ma come si fa? ci sono variabili indefinite e imponderabili; e poi, nessuno ha mai spiegato credibilmente come la bravura di un magistrato possa incidere sulle sue capacità di “capo”... vabbè, discorso lungo) …dicevo, si è rivelato un sistema che, per la reale impossibilità di valutare davvero il merito, ha finito per valutare troppe volte le idee, la vicinanza a quel gruppo piuttosto che all’altro ( ancora una volta in modo del tutto fisiologicamente umano, evitiamo ipocrisie), innescando una spirale che, questa sì, ha condotto alle degenerazioni del correntismo.

Ma, posta la lunga premessa, è semplicemente ridicolo pensare che tutto il male sia stato da una sola parte. Affermare che la colpa sarebbe solo della Politica ( per opere od omissioni) o solo delle correnti. Oppure, sostenere che i magistrati “progressisti” ( da oltre un ventennio saldamente al governo dell’Anm e del Csm) ne siano stati estranei, come ha fatto qualche mese fa un importante ex Presidente dell’Anm, dimenticando opportunamente di verificare ad esempio - l’appartenenza correntizia dei magistrati nei ministeri, quelli nei “posti”, se non di maggior potere, di sensibile vicinanza ai gangli decisionali della Politica.

Personalmente racconto spesso agli amici di quando, diventato dirigente Anm, iniziai a muovere primi passi, un po’ incerti e molto spaesati, nel Ministero della Giustizia, dove ero chiamato per impegni ufficiali. Mi accompagnavano colleghi diventati dirigenti Anm insieme a me, che non dovevano avere molta più esperienza di me, eppure costoro - e tra essi tanti sono coloro che hanno tuonato contro le commistioni tra magistratura e la Politica - costoro percorrevano i corridoi del Ministero come quelli di casa propria, salutando come vecchi amici i presenti, magistrati e non, che lavoravano lì costituendo l’ossatura organizzativa del Ministero. Perciò, forse, una maggiore attenzione pubblica alla realtà delle cose potrebbe essere opportuna.

Ad ogni modo temo che questi discorsi ora lascino il tempo che trovano. La Politica farà le sue riforme approfittando del discredito calato sui magistrati e, ci scommetto un caffè, ancora una volta si determinerà quella eterogenesi dei fini che finirà per rafforzare questa o quella parte - i più adatti? i più adattabili? operandosi un mero cambio di etichette e senza cambiare nulla.

In questa situazione, solo un cruccio mi rimane. Quello di “vedere” tanti magistrati attendere di giorno in giorno - con un pizzico di sadismo e un goccio di masochismo - di leggere sui giornali chi di loro sarà colpito dalla gogna.

Nell’illusione di assistere alla distruzione di un sistema, percepito come unica possibilità di costruirne uno migliore. A me sembrano, absit iniuria verbis, degli amici febbricitanti che danzano sulle spoglie dei loro simili. Senza rendersi conto che, tra quelle spoglie, ci sono non solo anche le loro, ma pure quelle di tanti cittadini perbene e di buona volontà.