Ha stravinto, su questo i numeri parlano chiaro. Ma a volte, un trionfo elettorale può rivelarsi politicamente ingestibile, insomma, una “fuga per la sconfitta”.

Boris Johnson ha stracciato il suo rivale laburista, James Corbyn, perché è riuscito ad imporre agli avversari, di sinistra e di destra radicale, la propria agenda politica. Che poi era fondata su un punto unico: la Brexit. “King Boris” ha intercettato un profondo malessere sociale che scuote i ceti più popolari del Regno Unito indicando un responsabile: l’Europa come volano di una globalizzazione che produce, nel cuore del Vecchio Continente, disuguaglianze, deindustrializzazione, smantellamento di ciò che resta del welfare state. Al tempo stesso, è riuscito a far leva su una narrazione identitaria capace di solleticare le vecchie corde imperiali. Il sovranismo imperiale è certamente più accattivante dello sbiadito sovranismo di sinistra che, salvo una tardiva correzione, ha caratterizzato l’iniziativa del Grande sconfitto: James Corbyn.

L’armamentario ideologico che ha rispolverato anche la “rivoluzione socialista” non è servito a mascherare le ambiguità che il leader ( fino a quando?) del Labour ha avuto sul tema che segnato le elezioni di ieri: la Brexit. Johnson ha vinto perché ha avuto dalla sua parte la forza della chiarezza. E in politica è una forza trascinante.

Per il Labour Party è una mazzata che va anche oltre gli sconfortanti dati dei seggi conquistati. I laburisti perdono, con consistenti travasi a favore dei conservatori, quasi tutte le roccaforti del “red wall”, dalle città del nord fino alle Midlands post- industriali, segnate profondamente da anni di austerity e dal collasso dello stato sociale.

Non è bastato un manifesto ambizioso, visionario, quale quello proposto da Corbyn e dai suoi più stretti collaboratori per far presa su famiglie impoverite, che cercano risposte qui ed oggi e non possono permettersi di attendere quei tempi lunghi necessari perché il Manifesto di Corbyn potesse realizzarsi. E in politica, il fattore- tempo è decisivo.

A ciò vanno aggiunte posizioni colpevolmente ambigue tenute su alcuni temi, a cominciare dall’antisemitismo., dall’anti- patriottismo e anti- monarchismo che non sono piaciute a parte del suo stesso elettorato, oltre al programma di spese faraonico che non è risultato credibile neppure tra gli elettori laburisti tanto era alto.

Quanto a “King Boris” ha promesso di tutto, e subito, nessun controllo doganale dopo la Brexit se non nel Mar d’Inghilterra e in qualche sperduto porto, la Brexit conclusa per gennaio, e visto che c’era anche quindicimila infermieri/ e in più.

Le promesse, se ben narrate, possono farti vincere, addirittura trionfare, ma se poi non le realizzi, allora il conto da pagare risulterà salatissimo. Tanto più in un Regno disunito. Perché l’altro dato politico fondamentale del voto, per certi aspetti ancor più pregnante della disfatta laburista e della capacità dimostrata da Johnson di “cannibalizzare” la de- stra antieuropeista di Farage, è il risultato del Partito nazionale scozzese di Nicola Sturgeon: spazzati via i tories, 17 seggi guadagnati, 52 parlamentari a Westminster.

La prima ministra ha già rilanciato da Edimburgo, un nuovo referendum per l’indipendenza dal Regno Unito, con l’obiettivo dichiarato di restare nell’Unione Europea da Stato sovrano.

Allo stesso modo, la Brexit spingerà l’Irlanda del Nord ancora più lontana da Londra, dal momento che l’accordo sulla Brexit la derubrica a zona cuscinetto danneggiata dalle incertezze delle regole doganali.

Di sovranismo imperiale si può vincere, ma anche, politicamente parlando, morire. Johnson ha dimostrato di essere un maestro della tattica, con un messaggio chiaro, «get Brexit done » ( concludiamo la Brexit), ormai condiviso dalla maggioranza della gente che non ne poteva più dell’agonizzante paralisi in cui si era ficcato il precedente Parlamento.

Jonhson stravince grazie all’Inghilterra profonda, A votare in massa Boris sono state le campagne e le piccole e medie città inglesi. Ma senza il dinamismo finanziario di Londra e del Regno delle start up, immaginare un rilancio “imperiale” dell’Inghilterra è un esercizio di fantasia più che una concreta prospettiva. Quanto all’Europa, il bye bye inglese può risultare addirittura benefico se sarà in grado di ripensarsi non solo in termini di un effettivo rafforzamento delle sue istanze sovranazionali, ma offrendo di sé una visione che possa risultare più vicina alle comunità nazionali.

Perché europeismo non significa omologazione, annullamento delle diversità, ma può esistere e diventare attrattivo solo se saprà porsi come un antidoto, sociale, culturale, politico, ad una globalizzazione senz’anima e socialmente devastante.