A dare lo spunto all’intervista con il penalista e professore della Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa, Tullio Padovani, è la considerazione del magistrato Gian Carlo Caselli, che firma un articolo dal titolo «Una proposta per riformare la giustizia: aboliamo l'appello», in cui sostiene che «per correggere l'anomalia italiana servono la ' nuova' prescrizione e la riduzione dei gradi di giudizio».

«Una proposta che mi sembra quasi apocrifa, non all’altezza di un magistrato dello spessore e del valore di Gian Carlo Caselli. Lo dico per la profonda stima che nutro nei suoi confronti», è la prima reazione di Padovani.

E’ una provocazione, allora?

Aboliamo pure l’appello, come propone il dottor Caselli, ma prima di farlo dobbiamo sapere che ci scontreremo con una serie di trattati internazionali che vincolano al doppio grado di giudizio, a partire dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

Secondo Caselli, l’eliminazione dell’appello allineerebbe il nostro «ai paesi di rito accusatorio».

Ma allora il sistema accusatorio dovremmo realizzarlo per intero e dunque dovremmo introdurre la separazione tra giudice e pubblico ministero e la discrezionalità dell’azione penale: due modifiche che non credo troverebbero particolare apprezzamento da parte della magistratura. Per carità, non elargiamo patenti gratuite...

Insomma, il nostro processo ha solo qualche vago accenno del sistema accusatorio?

Sa cosa mi disse un giorno un grande penalista americano? Che in Italia abbiamo costruito un codice di procedura penale informandoci sul sistema accusatorio mediante una cartolina postale. Del sistema accusatorio abbiamo preso qualche spunto, come il principio del contraddittorio, ma non molto di più.

L’appello sarebbe uno strumento utile «ad avvocati agguerriti, spregiudicati e costosi che puntano all’impunità grazie anche alla prescrizione che non si interrompe mai».

Ancora la nota avversione nei confronti di noi avvocati. Personalmente, le dico che non sono mai riuscito a ritardare di un giorno il processo. Io mi porrei invece il problema opposto: ovvero che le garanzie processuali come l’appello non siano alla portata di tutti, perchè qualcosa nella difesa non ha funzionato.

In che senso?

A dover preoccupare non sono gli avvocati agguerriti, che anzi sono indispensabili alla giustizia, ma quelli distratti che non difendono bene i loro assistiti. Soprattutto in sede di appello, infatti, ho visto errori nella difesa di primo grado. Questo, se vogliamo, è un vulnus da arginare, ma che si corregge proprio grazie all’esistenza di un secondo grado di giudizio.

Il riferimento è anche ad un processo che è «un percorso accidentato, pieno di ostacoli e trappole, infarcito di regole travestite da garanzie che in realtà sono insidie o cavilli».

Quella delle finte garanzie è una vecchissima polemica, che risale addirittura ad un capolavoro del Settecento come “La scienza della legislazione”, del giurista Gaetano Filangieri e che prosegue nell’Ottocento, con Francesco Carrara. Nulla di nuovo, dunque. La risposta è sempre la stessa: si indichino in modo chiaro queste garanzie inutili e anzi dannose per il cittadino, altrimenti diventa un discorso sterile e ideologico.

L’altra anomalia italiana sarebbe la prescrizione, secondo Caselli.

Si tratta di un problema delicato e io mi sento di condividere la linea delle Camere penali, che si oppongono all’entrata in vigore dell’abolizione della prescrizione. Capisco tuttavia che è una questione complessa, che però nasce da quella che è la vera anomalia italiana: il fatto che, per rimediare al sovraccarico giudiziario, non si fanno più amnistie come un tempo si usava. L’amnistia, oggi, è stata resa impossibile dal fatto che per la sua approvazione si è stabilita una maggioranza superiore a quella prevista per le riforme costituzionali. Per questa ragione si è andato ad accumulare un carico giudiziario eccessivo rispetto al sistema e questo carico si è a sua volta riversato sull’istituto della prescrizione.

Manca una valvola di sfogo del sistema?

Lo dimostra il fatto che i ritardi maturano nella fase delle indagini preliminari. La ragione è chiara: le procure non possono occuparsi di tutte le notizie di reato e dunque i processi di minore importanza vengono ritardati. Conosco molti pm che consapevolmente e direi anche giustamente lasciano indietro l’indagine meno importante o ricorrono alla richiesta di archiviazione che si basa sul fatto che le indagini non sono state svolte.

Ma la prescrizione serve, quindi?

Il vero problema del sistema non è la prescrizione, ma l’obbligatorietà dell’azione penale. La prescrizione è come una malattia con una latenza molto lunga: si vede in fase avanzata del processo, ma matura molto prima. Questa anomalia, dunque, si elimina solo se si riduce alla radice il carico di lavoro. Servirebbe un approccio pragmatico: in nessun paese del mondo esiste l’obbligo di trattare tutte le notizie di reato, perchè è un precetto che, semplicemente, non è possibile adempiere.

Così si risolverebbe il problema dell’eccessiva durata dei processi?

Nel resto del mondo i processi sono più veloci perchè se ne fanno meno, e se ne fanno meno perchè non si celebrano quelli che non vale la pena di celebrare. Noi, invece, discutiamo della prescrizione e ci illudiamo di risolvere il problema guardando il dito e non la luna.

Non servono riforme di sistema, quindi, come quelle ipotizzate dal ministro Bonafede?

Guardi, io sono contrario a questa mitologia del semplificare. Credo che, più semplicemente, dovremmo ispirarci allo spirito pragmatico degli inglesi. Sa come cominciano i loro manuali di diritto penale? “The police has to choose”, “la polizia deve scegliere”. Una cosa del genere in Italia ci scandalizzerebbe, ma il punto è che qualcuno deve scegliere. Glielo dico in sintesi: a dover essere abolita non è la prescrizione ma il panpenalismo, l’idea salvifica della pena come strumento per risolvere tutti i problemi.