L’Amazzonia va a fuoco. Non da oggi, da anni. Ma oggi va a fuoco molto più spesso e molto più rapidamente di prima. Stanno andando in fumo porzioni di foresta molto maggiori a quelle di qualche anno fa sia in senso assoluto, come estensione, sia in percentuale rispetto alla quantità rimasta di bosco tropicale, spaventosamente ridottosi. Non solo in Brasile, anche in Bolivia. Ma il 65% della foresta amazzonica è in territorio brasiliano.

L’emergenza brasiliana è reale, lo dimostrano i dati dei principali istituti internazionali specializzati. E’ vero che gli incendi si moltiplicano nella stagione secca iniziata a giugno - temperature più alte, minor umidità - e che soltanto i bilanci fatti a fine anno hanno senso. Ma è vero anche che se la deforestazione del giugno 2019 risulta essere dell’ 88% maggiore di quella dell’anno scorso ( secondo i dati dei prncipali istituti di ricerca brasiliani) e se quella di luglio addirittura del 212%, sarebbe poco sensato aspettare dicembre per preoccuparsi.

Vediamo di capirci qualcosa. Di solito gli incendi in Amazzonia iniziano a moltiplicarsi verso settembre e calano alla fine di novembre. Da cosa sono prodotti? Non dalla stagione secca. I poveri biologi brasiliani si stanno sgolando nel tentativodi spiegare al mondo che l’Amazzonia va a fuoco «durante la stagione secca, ma non a causa della stagione secca». Va a fuoco perché c’è una richiesta alta di terreni da coltivare e di pascoli da creare. Va a fuoco perché chi rapppresenta gli interessi giganteschi dell’agrobusiness - già coccolati da tutti i governi, inclusi quelli di sinistra di Lula da Silva e di Dilma Rousseff - ha in questo momento le mani completamente libere.

Il governo di ultradestra di Jair Bolsonaro, differentemente dai precedenti, non tratta mediando con la lobby dell’agrobusiness, cercando segretamente di non inimicarsela. Le ha dato luce verde a fare dell’Amazzonia ciò che vuole. Non si tratta più di una potentissimo gruppo di pressione che riesce a condizionare le politiche di deforestazione perché nessun governo ha intenzione di mettersela completamente contro. Ma di una lobby che è essa stessa potere di governo.

Per di più il linguaggio smisuratamente aggressivo di Jair Bolsonaro e le sue dichiarazioni riassumibili in una sorta di «chi se ne frega dell’Amazzonia» tolgono ogni freno agli innumerevoli soggetti interessati ad accaparrarsi nuove porzioni di foresta da trasformare in savana per poi poterla utilizzare.

Un elemento fondamentale è il tempo. Questo universo, nemmeno troppo sommerso, di persone interessate a far ardere quanta più Amazzonia possibile, ha molta fretta. Sanno che questo momento propizio ai loro interessi non durerà in eterno e quindi bisogna bruciare quanto più bosco possibile prima possibile. Si sentono totalmente spalleggiati e hanno fretta.

Cos’ha fatto concretamente Bolsonaro? Ha iniziato via social, al solito, con il contrapporre la difesa del patrimonio amazzonico alla possibilità di ripresa dell’economia brasiliana. Per capire come il messaggio funzioni è fondamentale tener presente che la stragrande maggioranza dei brasiliani si informa esclusivamente via social network, senza contradditorio e senza eterogeneità di fonti. Fatto drammatico che spiega moltissimo del Brasile attuale, non solo della questione amazzonica. Bolsonaro bombarda con dichiarazioni del tipo: «Solo i vegani, gente che mangia solo vegetali, sono preoccupati della Amazzonia» oppure «Quando finiranno le materie prime di cosa vivremo? Diventeremo tutti vegani? Cosa mangeremo, vivremo della difesa dell’ambiente che dà da mangiare solo alle Ong? Sono le Ong le responsabili, sono loro ad aver creato ad arte questa finta emergenza».

Non è riuscito a fondere come avrebbe voluto il ministero dell’agricoltura con quello dell’ambiente, ma ha paralizzato il ministero dell’ambiente. Ha nominato ministra dell’Agricoltura Tereza Cristina Dias, il capo della lobby dell’agrobusiness in Parlamento. Ha vietato che vengano individuate aree a rischio per impedire che siano poi dichiarate aree di protezione ambientale. Lo stesso ha fatto con le porzioni di terra indigena, impedendo di dichiararne di nuove e cercando di smantellare una ad una quelle già esistenti. Non si capisce cosa voglia fare del Fondo Amazzonia, un fondo finanziato soprattutto dalla Norvegia, del quale vorrebbe mantenere i soldi dirigendoli a tutti altri scopi.

Negli ultimi dieci anni La Norvegia, la Germania e l’azienda di petrolio Petrobras ( con il suo efficiente dipartimento di comunicazione per evitare le accuse di antiecologismo) hanno dato 650 milioni di euro a un centinaio di progetti proposti e gestiti da istituti brasiliani. Nemmeno uno di questi progetti è stato approvato dal governo Bolsonaro. Per completare l’opera il Planalto fa circolare voci sempre più insistenti sull’infondatezza delle cifre ufficiali sulla deforestazione ( verificabili da qualsiasi foto via satellite: dove cinque anni fa c’era il verde la foresta ora c’è il colore giallo ocra della terra arsa) elaborate dagli istituti brasiliani e ha spalancato le porte all’approvazione di nuovi pesticidi di vario genere, inclusi alcuni contenenti sostanze proibite in Europa.

Questo potrebbe creargli problemi teoricamente sul lungo periodo perché il recente accordo di libero commercio tra l’Unione europea e il Mercosur ( l’area di libero scambio del Cono sur costituita da Brasile, Argentina ed Uruguay) include delle norme a protezione dell’ambiente.

Per esempio chiede che i prootti importati in Europa dal Sud America non arrivino da zone deforestate di recente.

Ma non è detto che il lungo periodo interessi a Bolsonaro più dell’immediato e, soprattutto, non è possibile fidarsi ciecamente della dichiarata provenienza di tutti i prodotti esportati. Nella propaganda interna, l’unica che conta per il governo, Bolsonaro rilancia ai leader europei le accuse: «Ho sorvolato l’Europa due volte e non ho visto un chilometro quadrato di bosco, si preoccupino dei boschi di casa loro invece di criticare il Brasile».