Dall'alba del 1994 all'attuale tramonto il posto d'onore in Forza Italia, quello del braccio destro e solo in un secondo momento del “delfino”, perché Silvio Berlusconi a una vera successione non ci pensa realmente neanche adesso ma a lungo non ne ha voluto neppure parlare per gioco, può essere paragonato solo a quello accanto al guidatore prima dell'invenzione dell'airbag. Il più pericoloso di tutti. E' significativo notare che la situazione nella sua corte politica e diametralmente opposta a quella nell'azienda, dove al contrario i collaboratori più stretti e fidati sono sempre gli stessi da decenni: Fidel Confalonieri, Gianni Letta, Adriano Galliani. La differenza è chiara. Berlusconi non si è mai visto come un leader politico ma come un sovrano. Nella dimensione aziendale nessuno, neppure nei momenti di dissenso, ha mai messo in discussione quel ruolo. La logica della politica è diversa ed è al contrario quasi inevitabile che i disaccordi politici diventino lesa maestà.

Lista lunga, lunghissima quella che precede Giovanni Toti ( e forse anche Mara Carfagna) nella lista dei comandanti in seconda il cui sodalizio con il monarca di Arcore è finito in separazione, qualche volta quasi pacifica, molto più spesso virulenta e rancorosa. Il primo, probabilmente, fu Vittorio Dotti. Principe del foro, avvocato civilista di fiducia del Cavaliere, arruolato quando, in tutta fretta, si trattò di tirare fuori dal nulla le liste del neonato partito azzurro nel 1994. La sorpresa, il blitz, la guerra lampo era fondamentale nel piano di battaglia mediatico del nuovo partito. Non c'era modo di selezionare altrimenti un gruppo dirigente. Toccò pescare tra conoscenti e intimi e gli avvocati del gran capo figuravano in primissima fila.

Dotti non approdò al governo come il losco collega Cesarone Previti, e sarebbe stato un vantaggio data la breve e travagliata vita di quel governo affondato da Bossi dopo 9 mesi. Rivestì invece i panni di capo del più forte gruppo alla Camera ma i dissensi con il capo e con la sua anima nera, appunto Previti, furono immediati. Quando l'allora fidanzata dell'avvocatone, Stefania Ariosto, la teste “Omega” iniziò a mitragliare testimonianze contro Cesarone e Silvio, a Dotti fu chiesto di testimoniare a sua volta, anche su fatti di cui non era a conoscenza. Si rifiutò e quando si tornò alle urne, nel 1996, Berlusconi lo chiamò al telefono: “Non ti possiamo ricandidare”. Si salutarono con un “Ciao” neppure troppo ostile.

Se ne andò senza chiasso, in quel 1996, un altro avvocato, tra i fondatori del partito, vicinissimo al sovrano e anche lui capogruppo: Raffaele Della Valle.

Clemente Mastella, fondatore con Casini del Ccd, il gruppo ex Dc che nel 1993 non aveva aderito alla trasformazione in Ppi, fu il primo alleato a mollare il capo dopo Bossi. Il caso però era diverso e una certa ingratitudine è innegabile. Nel 1994 il Cavaliere aveva inserito i leader del Ccd nelle sue liste, pur contrario per motivi d'immagine aveva soddisfatto la richiesta imperiosa di don Clemente, che voleva un ministero e ottenne quello del Lavoro. “Devo pur fare qualcosa per questi ragazzi che per me hanno spaccato la Dc”, spiegò il poi l'onnipotente azzurro. A dividerli non fu la politica ma il carattere. Mastella non sopportava la condizione di vassallo nella quale chiunque orbiti intorno al trono di Arcore inevitabilmente si ritrova. Nel 1998 lasciò il centrodestra, fu determinante per la nascita del governo D'Alema. Nel 2009, dopo essere stato ministro della Giustizia nel secondo governo Prodi, è tornato nel centrodestra.

Leader del secondo partito della destra, An, ministro, vicepremier presidente della Camera, Gianfranco Fini era l'erede naturale alla successione. Delfino senza neppure bisogno di dichiararlo. In un'alleanza politica durata quasi vent'anni però il ruolo di eterno secondo va stretto, tanto più dopo la decisione berlusconiana di fondere Fi e An, annunciata senza avvertire nessuno da un predellino d'automobile. “Siamo alle comiche finali”, commentò Fini. Invece fu un dramma e, per lui, una tragedia. I rapporti con Berlusconi, fino al celebre “Che fai mi cacci?” pronunciato di fronte all'intera direzione del partitone unico, passarono dall'amicizia all'odio. Nel 2010, col capo fiaccato dagli scandali sessuali, Fini tentò il colpaccio: una mozione di sfiducia firmata dalla maggioranza dei parlamentari. Sembrava fatta. Napolitano chiese però di rinviare il voto. Fini, con errore imperdonabile accettò. Silvio acquistò voti. La mozione fu sconfitta, la carriera politica di Fini sepolta proprio mentre la stampa berlusconiana lo metteva in croce per una storiaccia losca di appartamenti a Montecarlo.

Berlusconi non porta rancore. Tutti quelli che lo hanno abbandonato sono stati accolti di nuovo quando sono tornati all'ovile. Con Fini no. Lì la rottura è stata totale. come con Angelino Alfano, delfino “ufficiale” dopo che il papabile precedente, Franco Frattini, ex ministro degli esteri e commissario europeo, aveva a sua volta preso le distanze dal sovrano nel 2012. Alfano se ne andò nel 2013 portandosi dietro l'intero stato maggiore azzurro. Con Berlusconi condannato, messo fuori dal Parlamento e ai servizi domiciliari lo dava per spacciato. Calcolo sbagliato e neppure lui è stato perdonato. Perché Berlusconi può accettare di essere abbandonato. Ma non che qualcuno provi a prenderne il posto. A rubargli in trono.